Introduzione / Introduction
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THE VOICE OF MUSIC ... LA VOCE DELLA MUSICA
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JAZZ

H-I

HADEN / GARBAREK / GISMONTI - MAGICO (1979)

HADEN / GARBAREK / GISMONTI - FOLK SONGS (1979) FOREVER YOUNG

Passare sopra le mode come un rullo compressore. Assistere con sovrano distacco al degrado della radio. Pulirsi il culo con le recensioni della “stampa specializzata”. Essere Manfred Eicher ha richiesto una caparbia riluttanza verso i compromessi che, però, ha consentito al guru della ECM di concepire e produrre album come Magico e Folk Songs quando della “world music” non esisteva nemmeno la definizione. La spiazzante originalità del trio multi-etnico è illustrata dalla foto di copertina: lo statunitense Charlie Haden (contrabbasso) indossa una giacca da guerrigliero sdrammatizzata dalla penna nel taschino in perfetto stile “nerd”, il brasiliano Egberto Gismonti (chitarre, pianoforte) sembra un rastafari spretato, il norvegese Jan Garbarek (sassofoni) somiglia a Mr. Spock. Accomunati dalla fede nell’improvvisazione, i tre virtuosi fondono i rispettivi stili in un affascinante, inedito linguaggio strumentale. Haden combina i trascorsi “free” con la militanza politica, Gismonti filtra le suggestioni amazzoniche attraverso il vaglio dell’accademia, Garbarek evoca le gelide atmosfere delle latitudini scandinave. La sublime sintesi sonora trascende i limiti formali dei due album, registrati nel 1979 in altrettante sedute (Giugno / Novembre), per diventare pura emozione man mano che l’ascolto procede, tra incanto e stupore (Bailarina, Magico, Spor, Folk Song, Bôdas De Prata, Veien), fino all’immane crescendo espressivo culminante nelle vertiginose melodie di Cego Aderaldo ed Equilibrista. - B.A.


JIM HALL - JAZZ GUITAR (1957)

JIM HALL - IT’S NICE TO BE WITH YOU (1969)

JIM HALL / TOM HARRELL - THESE ROOMS (1988)

SCOTT HALL - STRENGTH IN NUMBERS (1996)

CHICO HAMILTON - CHICO HAMILTON QUINTET (1955)

CHICO HAMILTON - CHICO HAMILTON QUINTET IN HI FI (1957)

HERBIE HANCOCK - TAKIN’ OFF (1962)

HERBIE HANCOCK - MY POINT OF VIEW (1963)

HERBIE HANCOCK - MAIDEN VOYAGE (1964)

HERBIE HANCOCK - EMPYREAN ISLES (1964)

HERBIE HANCOCK - SPEAK LIKE A CHILD (1968)

HERBIE HANCOCK - V.S.O.P. (1976)

HERBIE HANCOCK - THE NEW STANDARD (1996)

JOHN HANDY / ALI AKBAR KHAN - KARUNA SUPREME (1975)

STAFFAN HARDE - STAFFAN HARDE (1974)

BILL HARDMAN - SAYING SOMETHING (1961)

BILLY HARPER - BLACK SAINT (1975)


TOM HARRELL - AURORA [TOTAL!] (1976)

Le carriere di Bob Berg e Tom Harrell procedettero in parallelo per vari anni, fin dai tempi del sodalizio nella band di Horace Silver, nella quale sostituirono nientemeno che i Brecker Brothers e per cui registrarono insieme alcuni pregevoli album Blue Note (Silver ‘n Brass, Silver ‘n Wood, Silver ‘n Percussion). Al momento di spiccare il volo in autonomia - un attimo prima di entrare nella storia col quintetto di Phil Woods (Harrell) e di assurgere al rango di campione del movimento post-fusion (Berg) - i due amici decidono di collaborare ancora nei rispettivi esordi discografici da leader [Aurora (Total!), New Birth].
Aurora (Total!) - Gli echi latini risalenti all’esperienza con Silver si propagano su taluni arrangiamenti (On The Roof, While There’s Time), lasciando poi spazio all’indomabile carattere hard-bop del trombettista: The Water’s Edge - meraviglioso tema poi ripreso sul capolavoro Stories (ancora con Berg) - sfoggia la penna d’oro di uno dei massimi compositori jazz dell’era moderna, mentre l’interpretazione dell’immortale Invitation esalta il formidabile tandem dei fiati. Evocando alcune pagine scritte da Freddie Hubbard per la CTI, l’andatura funky di Aurora allestisce una bella vetrina per la chitarra di Barry Finnerty (chi se lo ricorda su Heavy Metal Be-Bop e Straphangin’?). Su Outdoor Cafe va in scena il versante più riflessivo del titolare, assecondato da specialisti del calibro di Mike Richmond (contrabbasso / basso elettrico) e Lenny White (batteria). - B.A.


TOM HARRELL / JOHN McNEIL - LOOK TO THE SKY (1979)

TOM HARRELL - PLAY OF LIGHT (1982)

TOM HARRELL - MOON ALLEY (1985)

TOM HARRELL - OPEN AIR (1986)


TOM HARRELL - STORIES (1987) FOREVER YOUNG

Non esistono dischi di Tom Harrell men che magnifici. Egli è ontologicamente incapace di farne. E tuttavia, molti degli ascoltatori che lo scoprirono alla corte di Phil Woods (Heaven, Integrity, Gratitude, Evolution, Flash, Real Life) nutrono una particolare predilezione per Stories. La memorabile foto della copertina, con l’allucinato sguardo del trombettista e le minacciose ombre riflesse sullo sfondo*, è più che un manifesto programmatico: essa ritrae icasticamente i conflitti interiori di un uomo rapito dall’ispirazione e braccato dai demoni del disagio mentale. Come possa un individuo affetto da schizofrenia paranoide comporre un tema sublime come Song Flower è mistero che va al di là della nostra capacità di comprensione: per descrivere la bellezza della melodia - in bilico tra mestizia e lirismo - le parole non bastano, è necessario un buon impianto stereo. L’impeccabile produzione di Bill Goodwin per le gloriose insegne della Contemporary consente di assemblare una band superlativa: accanto al titolare, qui dedito esclusivamente al flicorno, sfilano la sezione ritmica composta da Ray Drummond (contrabbasso) e Billy Hart (batteria), il fenomeno danese-vietnamita Niels Lan Doky (pianoforte), il compianto Bob Berg (sax tenore) e, solo su tre arrangiamenti, sua maestà John Scofield (chitarra). L’elegante, dinamica andatura di Rapture tratteggia un cantabile motivo che pattina lievissimo sugli accordi, definendo immediatamente la statura dell’autore, a nostro parere uno dei più dotati emersi dopo Wayne Shorter e Pat Metheny. Il drammatico incedere di Story si prolunga per più di tredici minuti, sfruttando le risorse dei solisti fino all’ultima stilla di energia: in sequenza, superbi interventi di Scofield, Harrell, Berg. Se il nerbo espressivo del quintetto hard-bop si dispiega su The Mountain, l’organico ampliato a sei elementi si giova dell’innesco elettrico sugli echi latini di The Water’s Edge e sul più tradizionale contesto di Viable Blues. [P.S. - 1) *Proprio alle spalle del soggetto, la sagoma simile alle orecchie di un enorme coniglio - incubo ricorrente di film e libri fantasy - accresce il senso di inquietudine trasmesso dall’immagine. 2) Durante il periodo 1974/1976, Berg e Harrell condivisero una proficua militanza al servizio di Horace Silver. In seguito, l’ancia di Berg diventerà una delle più autorevoli della stagione fusion, assieme a quelle di Bob Mintzer e Michael Brecker.] - B.A.


TOM HARRELL - SAIL AWAY [Contemporary] (1989)

TOM HARRELL - FORM (1990)

TOM HARRELL - SAIL AWAY [MusiDisc] (1991)

TOM HARRELL - PASSAGES (1992)

TOM HARRELL - UPSWING (1993)

TOM HARRELL - TIME’S MIRROR (1999)

TOM HARRELL - LIGHT ON (2006)

TOM HARRELL - PRANA DANCE (2008)

TOM HARRELL - ROMAN NIGHTS (2009)

TOM HARRELL - THE TIME OF THE SUN (2010)

TOM HARRELL - NUMBER FIVE (2011)

JOE HARRIOTT - SOUTHERN HORIZONS (1960)


JOE HARRIOTT - FREE FORM (1960) FOREVER YOUNG

A New York sarebbe stato reclutato da Alfred Lion, che proprio allora iniziava a orientare la Blue Noteverso una lucida, concreta avanguardia (Jackie McLean, Grachan Moncur III, Andrew Hill, Eric Dolphy, Sam Rivers, Bobby Hutcherson). D’altra parte, a Los Angeles, la Contemporarydel lungimirante Lester Koenig presentava al mondo il fenomeno Ornette Coleman. Domiciliato a Londra - prossima a diventare la mecca del rock, ma allora zona periferica del jazz - il giamaicano Joe Harriott non ebbe le stesse opportunità professionali dei colleghi americani. Eppure, indipendentemente da quei pionieri, col suo quintetto anch’egli stava contribuendo a scardinare le regole dell’improvvisazione: l’album-manifesto* inciso per la JazzLand - eloquente fin dal titolo - illustra benissimo l’inafferrabile concetto di “libertà vigilata” imposto alla musica, col pianoforte di Pat Smythe a transennare i fraseggi dei solisti e i fiati di Joe Harriott (sax alto) e Shake Keane (tromba) alla continua ricerca di un varco attraverso cui eludere i confini delle armonie. Sebbene qua (Coda) e là (Calypso Sketches) si avvertano influenze riconducibili a capiscuola (coevi) come il Dave Brubeck di Time Out o l’Ornette Coleman di This Is Our Music, Free Form mantiene una propria, spiccata originalità dovuta alle continue variazioni metriche incluse negli arrangiamenti e all’intenso impiego del collettivo in chiave polifonica. La coppia motrice formata da Coleridge Goode (contrabbasso) e Phil Seamen (batteria) si distingue per l’accuratezza della scansione e il nitore dei suoni anche in un ambito squisitamente “free”. Formation, Abstract, Impression, Parallel, Straight Lines, Tempo sono avvincenti pagine di un volume raro e prezioso, da collocare accanto a classici come Change Of The Century, Let Freedom Ring, Point Of Departure, Out To Lunch! etc. - Quasi mezzo secolo dopo, Ken Vandermark renderà omaggio a Joe Harriott con un disco dedicato a sue composizioni (Straight Lines). (P.S. - *Il successivo Abstract è altrettanto valido e indispensabile.) - B.A.


JOE HARRIOTT - ABSTRACT (1962)

JEROME HARRIS - HIDDEN IN PLAIN VIEW (1995)

DONALD HARRISON / TERENCE BLANCHARD - NEW YORK SECOND LINE (1983)

DONALD HARRISON / TERENCE BLANCHARD - DISCERNMENT (1984)

DONALD HARRISON / TERENCE BLANCHARD - NASCENCE (1984)

DONALD HARRISON / TERENCE BLANCHARD - CRYSTAL STAIR (1987)

DONALD HARRISON / TERENCE BLANCHARD - BLACK PEARL (1988) FOREVER YOUNG

DONALD HARRISON - NOUVEAU SWING (1996)

BILLY HART - BILLY HART QUARTET (2005)

BILLY HART - ALL OUR REASONS (2011)


HAMPTON HAWES - FOR REAL! (1958) FOREVER YOUNG

A strong album from an exceptional band. - Richard Cook / Brian Morton

Francamente ci sfugge il motivo per cui For Real! non figuri accanto a capolavori come Giant Steps, Kind Of Blue o Time Out. Eppure la formazione è un’autentica parata di fenomeni. Frank Butler: tutti ricordiamo le sue spumeggianti performance con i complessini di Curtis Counce (Landslide; You Get More Bounce With Curtis Counce!; Carl’s Blues; Exploring The Future). Harold Land, protagonista, insieme allo stesso Hawes, dell’esaltante stagione del “cool” californiano. Scott LaFaro, riformatore del contrabbasso e prezioso partner di Bill Evans nel suo storico trio. Il 17 Marzo del 1958, sotto l’occhio vigile del produttore Lester Koenig, il quartetto registra un album che, dopo mezzo secolo, può agevolmente scalzare dall’autoradio qualsiasi boiata promossa da MTV. Provate con Hip, magari durante una romantica gita in spider sul lungomare: la bambola di turno diverrà creta nelle vostre mani. L’incisivo fraseggio di Hawes (pianoforte) e il virile timbro di Land (sax tenore) riempiono lo spazio di note limpide, tornite, sospese sul vortice ritmico creato da Butler e LaFaro. Momenti topici: l’eccitante “chase” tra sax e batteria su Crazeology (Little Bennie), il placido battito swing di For Real!, il disinvolto approccio agli standard che genera una ballad irresistibile (Wrap Your Troubles In Dreams) e una sfrenata corsa be-bop (I Love You). - B.A.


ROY HAYNES - LOVE LETTERS (2002)

DAVID HAZELTINE - HOW IT IS (1997)

DAVID HAZELTINE - A WORLD FOR HER (1998)

DAVID HAZELTINE - BLUE QUARTERS VOL. 1 (1998)

DAVID HAZELTINE - INVERSIONS (2010)

MARK HELIAS - THE CURRENT SET (1987)


JULIUS HEMPHILL - DOGON A.D. (1972) FOREVER YOUNG

FreedomMbariFin dal tenebroso incipit di Dogon A.D., le stoccate del violoncello di Abdul Wadud si impongono con la forza espressiva di un riff di Jimi Hendrix. L’arrangiamento dura quasi quindici minuti, lungo i quali il quartetto trasfigura l’elaborazione del tema in una cerimonia rituale ispirata alle usanze del popolo Dogon: ascoltando il brano al buio, non è difficile immaginare una coreografia animata da quelle caratteristiche maschere tribali. La sostanza musicale consta comunque di una lunga, allucinogena improvvisazione scandita dall’inconsueta coppia ritmica [Abdul Wadud (violoncello), Philip Wilson (batteria)] e condotta dalla dionisiaca prima linea [Julius Hemphill (sax alto), Baikida E.J. Carroll (tromba)]. Se possibile, l’euforia aumenta d’intensità attraverso lo swing incorporeo che pulsa su Rites. Il brillante amalgama timbrico tra flauto, vocalizzi (Hemphill) e spazzole (Wilson), fa di The Painter un curioso ibrido di eleganza ed esotismo. Eletto album “feticcio” dal collega e allievo Tim Berne, in vinile fu pubblicato dapprima sull’etichetta personale del sassofonista (Mbari), poi dalla sussidiaria jazz dell’Arista (Freedom). Scandalosamente dissepolto su CD solo nel 2011. - B.A.


JULIUS HEMPHILL - ‘COON BID’NESS (REFLECTIONS) (1975)

JULIUS HEMPHILL - ROI BOYÉ & THE GOTHAM MINSTRELS (1977)

JULIUS HEMPHILL / OLIVER LAKE - BUSTER BEE (1978)


JULIUS HEMPHILL - RAW MATERIALS AND RESIDUALS (1978) FOREVER YOUNG

Pochi mesi dopo l’esordio live del World Saxophone Quartet (Point Of No Return), deciso a promuovere il messaggio del “free” più ispirato, coerente e genuino, Julius Hemphill entra in studio a capo di un trio che, in luogo della sezione ritmica tradizionale (contrabbasso / batteria), schiera il poliedrico violoncello di Abdul Wadud, collaboratore abituale del leader, e le “sun percussion” di Don Môyè. Il titolo dell’album dice già molto: sonorità grezze e scorie melodiche vengono agglutinate, frullate e riciclate senza posa, generando un magma gorgogliante di timbri, temi e fraseggi. Rispetto al sinistro espressionismo di Mirrors e Plateau, lo pseudo-swing di Long Rhythm consente una più agevole fruizione dell’arrangiamento, mentre C e G Song aprono e chiudono il programma, rispettivamente, con un’impetuosa fuga condotta da Hemphill e un ipnotico riff pizzicato da Wadud. La musica di Julius Hemphill eserciterà un’influenza decisiva su Tim Berne, suo allievo e protagonista dei decenni successivi. - B.A.


JULIUS HEMPHILL - FAT MAN AND THE HARD BLUES (1991) FOREVER YOUNG

Il modello di riferimento del progetto è il World Saxophone Quartet, di cui Julius Hemphill fu membro fondatore e ingegno prolifico, ma qui i fiatisti sono sei - J.H. (alto), Marty Ehrlich (soprano, alto, flauto), Carl Grubbs (soprano, alto), James Carter (tenore), Andrew White (tenore), Sam Furnace (baritono, flauto) - e il compianto texano dirige a proprio nome. Oltre che dal W.S.Q., la formula dei sassofoni “a cappella” fu introdotta e promossa da formazioni come il 29th Street Saxophone Quartet di Bobby Watson, il ROVA (Jon Raskin, Larry Ochs, Andrew Voigt, Bruce Ackley) e, in Italia, estesa agli ottoni dai magnifici Six Mobiles di Roberto Ottaviano. Il sestetto agli ordini di Hemphill coniuga un forte senso della tradizione con audaci sortite nell’avanguardia. Il legame con la cultura afro-americana affiora sui brani in cui il dialogo tra solista e sezione evoca il rito gospel officiato in chiesa da predicatore e coro (Lenny; Fat Man; Anchorman; The Hard Blues). I guizzi più sperimentali si ritrovano nel solenne movimento per tre flauti e tre ance di Tendrils, nel tempo in 2/3 di Three-Step e nelle suggestive armonie sovrapposte di Opening. Ovunque, l’impeccabile sincronia degli unisoni (Otis’ Groove; Untitled), il bilanciamento tra scrittura e improvvisazione (Glide; The Answer) e il valore intrinseco dei singoli assoli (Headlines; Four Saints) esaltano la caratura artistica di Hemphill. L’album fu pubblicato dalla Black Saint di Giovanni Bonandrini: con la P2 al governo, un raro momento d’orgoglio nazionale. - B.A.


JULIUS HEMPHILL - FIVE CHORD STUD (1993)

JULIUS HEMPHILL - AT DR. KING’S TABLE (1997)

EDDIE HENDERSON - REEMERGENCE (1998)

EDDIE HENDERSON - FOR ALL WE KNOW (2009)

JOE HENDERSON - PAGE ONE (1963)


JOE HENDERSON - OUR THING (1963) FOREVER YOUNG

Our Thing, inteso proprio nel senso italiano di “Cosa Nostra”, sebbene Leonard Feather precisi nelle note di copertina che l’espressione tradotta non implica nulla di clandestino o illegale. Semplicemente, a Joe Henderson piaceva come titolo per il suo secondo album Blue Note: neanche a dirlo, un altro capolavoro. Il sodalizio artistico con Kenny Dorham, già sperimentato con successo sui magnifici Una Mas e Page One, sprona i due fiatisti a incrociare sax tenore e tromba per la terza volta nello stesso anno, assicurando loro un posto tra i grandi tandem del jazz (Al Cohn e Zoot Sims, Dave Brubeck e Paul Desmond, Art Farmer e Benny Golson, Joe Zawinul e Wayne Shorter, Ralph Towner e John Abercrombie etc.). A una tipica seduta hard-bop, seppure di altissimo livello, lo sbilenco pianoforte di Andrew Hill trasmette un fecondo moto d’insubordinazione alle regole. Micidiale la potenza della sezione ritmica [Eddie Khan (contrabbasso); Pete La Roca (batteria)]. I temi originali, firmati a turno da Henderson e Dorham, confermano la genuina ispirazione di entrambi gli autori, alternando sofisticate variazioni blues (Teeter Totter, Back Road), seducenti parentesi latine (Pedro’s Time), vertiginose altalene metriche (Our Thing). Una nostra personale predilezione va alla conclusiva Escapade di Kenny Dorham, geniale sintesi di complessità, bellezza, sorpresa, logica. - B.A.


JOE HENDERSON - IN ‘N OUT (1964) FOREVER YOUNG

Il periodo Blue Note è unanimemente considerato il momento più felice della carriera di Joe Henderson. Durante l’arco di tempo della collaborazione con la gloriosa label di Alfred Lion, Henderson sfornò una serie ininterrotta di capolavori, oggi tutti disponibili su CD. In ‘n Out è senza dubbio un classico. Lo stesso Bruce Lundvall, responsabile commerciale e direttore artistico dell’etichetta, inserisce questo album tra i suoi preferiti, insieme a una manciata di altri titoli, limitatamente a quelli realizzati prima della sua gestione. Nel 1964 Joe Henderson era uno dei giovani tenoristi che si muovevano nel solco tracciato da Coltrane, anche se le sue origini erano più squisitamente boppistiche e parkeriane (Coltrane proveniva dal R&B). D’altro canto, Henderson si dimostrava particolarmente sensibile alle innovazioni armoniche dei pionieri del “free jazz”. I compagni del sassofonista, per questa seduta, sono autentiche stelle: il prodigioso bassista Richard Davis, veterano della scuderia; al piano McCoy Tyner e alla batteria Elvin Jones, cioè metà dello storico quartetto di John Coltrane; il quintetto è degnamente completato dalla tromba di Kenny Dorham, solista superlativo e compositore brillante, mai una nota superflua, il magistero tecnico sempre asservito all’idea musicale. L’ambito in cui opera il gruppo è tipicamente modale e le cinque composizioni (tre di Henderson, due di Dorham), al tempo stesso funzionali all’improvvisazione e melodicamente riuscitissime, offrono un solido punto di riferimento per gli assoli di sax, tromba e piano. In questo lavoro, la già proficua collaborazione tra Joe Henderson e Kenny Dorham raggiunge la sua piena maturità: trattandosi del meglio della Blue Note, non è azzardato affermare che siamo di fronte al meglio del meglio. - B.A.


JOE HENDERSON - INNER URGE (1964) FOREVER YOUNG

JOE HENDERSON - MODE FOR JOE (1966)

JOE HENDERSON - THE KICKER (1967)

JOE HENDERSON - TETRAGON (1968) FOREVER YOUNG


JOE HENDERSON - JOE HENDERSON IN JAPAN (1971)

Joe Henderson In Japan is one of a handful of records from the late Sixties and early Seventies to be studied like a textbook by the most advanced young jazz musicians. - Bill Kirchner

Nel 1971 il jazz era uno stile prossimo all’obsolescenza e un affare economicamente svantaggioso. Eppure, nonostante Joe Henderson avesse raffazzonato una sezione ritmica locale per la trasferta in Giappone, la sua tournée riscosse un successo enorme e si concluse coi trionfali concerti di Tokyo. In realtà, nella terra del Sol Levante il sassofonista godeva ancora di una certa fama e, forte di un vigore fisico ed espressivo intatto, si esibì in un magistrale saggio sull’arte dell’improvvisazione. Sebbene privo di fenomeni, il motivato trio nipponico puntellò con perizia i parchi arrangiamenti per quartetto, integrando gli assoli del fuoriclasse americano con ritocchi e fraseggi più che pregevoli. In particolare, oltre al solido tandem propulsivo [Kunimitsu Inaba (contrabbasso); Motohiko Hino (batteria)], si apprezza l’eccellente pianista Hideo Ichikawa, sempre pronto alla fuga individuale ed efficacissimo nell’assecondare gli spunti del leader. Le immortali note introduttive di ‘Round Midnight eccitano il pubblico e preludono a un’esecuzione memorabile. Invertendo il titolo di un suo capolavoro Blue Note (In ‘n Out), Henderson ne rigenera il tema modale (Out ‘n In) grazie all’amalgama tra il suono turgido del sax tenore e il riverbero fluorescente del piano elettrico. Alla distensiva atmosfera latina di Blue Bossa, popolare standard scritto da Kenny Dorham e, insieme a questi, già inciso su Page One, segue l’impetuosa sfuriata hard-bop di Junk Blues, degna conclusione di un album che vorremmo si smettesse di considerare “minore”. - B.A.


JOE HENDERSON - MIRROR MIRROR (1980)

JOE HENDERSON - THE STATE OF THE TENOR / LIVE AT THE VILLAGE VANGUARD (1985)

JOE HENDERSON - AN EVENING WITH JOE HENDERSON (1987)

JOE HENDERSON - THE STANDARD JOE (1991)

JOE HENDERSON - SO NEAR, SO FAR (MUSINGS FOR MILES ) (1992)

STEVE HERBERMAN - THOUGHT LINES (2001)

WOODY HERMAN - CHICK, DONALD, WALTER & WOODROW (1978)

CONRAD HERWIG - THE LATIN SIDE OF JOHN COLTRANE (1996)

CONRAD HERWIG - HEART OF DARKNESS (1997)

CONRAD HERWIG - UNSEEN UNIVERSE (1999)

CONRAD HERWIG - LAND OF SHADOW (2002)

CONRAD HERWIG - THE LATIN SIDE OF WAYNE SHORTER (2008)

CONRAD HERWIG - THE LATIN SIDE OF HERBIE HANCOCK (2010)

CONRAD HERWIG - A VOICE THROUGH THE DOOR (2012)


ANDREW HILL - BLACK FIRE (1963) FOREVER YOUNG

Joe Henderson aveva reclutato Andrew Hill per la registrazione in studio di Our Thing, presentandolo contestualmente ad Alfred Lion. L’incontro col capo della Blue Note procurò al pianista haitiano un lucroso contratto discografico. Ancora una volta, il produttore tedesco aveva visto giusto: Hill incise per la prestigiosa etichetta almeno cinque capolavori intramontabili (Black Fire; Smokestack; Judgment!; Point Of Departure; Andrew!!!). Oltre che come sostenitore, Henderson risultò decisivo anche come partner di Hill, partecipando alle session del suo primo album e misurandosi con quelle melodie sghembe e quei ritmi angolosi. Il timbro virile del sax tenore s’inoltra impavido nei sinistri meandri armonici di Pumpkin, Black Fire, Cantarnos, McNeil Island e Land Of Nod, configurando un nuovo modello di quartetto jazz, ispirato tanto a Thelonius Monk quanto alla Neue Wiener Schule. I due brani in trio (Subterfuge; Tired Trade) esaltano l’interplay tra il leader e la fenomenale coppia motrice [Richard Davis (contrabbasso); Roy Haynes (batteria)]. [P.S. - Henderson tornerà a fianco di Hill anche l’anno successivo, per lo stupendo Point Of Departure.] - B.A.


ANDREW HILL - SMOKESTACK (1963) FOREVER YOUNG

Ampliando il tradizionale organico con un secondo contrabbassista, Smokestack propone una concezione assai elastica del trio: Roy Haynes, Richard Davis ed Eddie Khan appaiono intenti a imprimere continui scossoni al disegno ritmico di Ode To Von, 30 Pier Avenue e Not So. È una musica intensa, obliqua: il piano del leader è caratterizzato da intervalli inusuali e da uno slancio percussivo che informa di sé anche il lirismo di Verne, The Day After e Wailing Wall. - E.I.J. / B.A.


ANDREW HILL - JUDGEMENT! (1964) FOREVER YOUNG

Judgment!, con il vibrafonista Bobby Hutcherson, è un ulteriore esempio da manuale di conciliazione tra libertà e disciplina. L’interazione sopra la figura “ostinato” di Siete Ocho è affascinante, e il precipitoso e potente pianismo di Hill in Yokada Yokada dà un’idea della sua originalità solistica. - E.I.J.


ANDREW HILL - POINT OF DEPARTURE (1964) FOREVER YOUNG

Nonostante sia considerato un esponente dell’avanguardia, la sua visione musicale resta nell’ambito del sistema tonale. Il suo contributo all’album Our Thing, di Joe Henderson, gli guadagnò un contratto con la Blue Note, proprio nel periodo in cui quell’etichetta incoraggiava gli sforzi di alcuni jazz-men inclini alla sperimentazione. L’opera di pianista e di compositore di Andrew Hill resta la più naturale e spontanea, tra quelle della scuola Blue Note e, a differenza dei vari Herbie Hancock, Tony Williams e Bobby Hutcherson, egli è l’unico che abbia proseguito su questa strada. Con il grande album Point Of Departure, Hill approda ai massimi livelli, impiegando i talenti del trombettista Kenny Dorham, del multistrumentista Eric Dolphy e del sax tenore Joe Henderson come un vero maestro di trame e colori. Le sue composizioni si direbbero concepite su misura per quegli esecutori. Dedication, uno splendido brano lento, è un’indimenticabile coreografia di movimenti solenni. - E.I.J.


ANDREW HILL - ANDREW!!! (1964) FOREVER YOUNG

Il quinto album inciso in veste di leader per la Blue Note conferma lo stato di grazia di Andrew Hill, che traspare anche dalla sagace scelta dei musicisti. Accanto ai fidi Bobby Hutcherson (vibrafono) e Richard Davis (contrabbasso) troviamo John Gilmore (tenore), improvvisatore del livello di Coltrane, Shorter e Henderson, già noto al pubblico per una proficua collaborazione con Clifford Jordan (Blowing In From Chicago), poi assurto a maggior fama come sassofonista nell’orchestra di Sun Ra. La formula strumentale già impiegata sullo splendido Judgment! viene riproposta nel primo pezzo (The Griots), con Joe Chambers (batteria) al posto di Elvin Jones: il quartetto piano/vibrafono si conferma medium esemplare per esporre le complesse architetture ritmiche del leader. Rinforzando la trama sonora col sax di Gilmore, Hill dona agli altri arrangiamenti un’espressiva policromia timbrica, che risalta nell’ambigua atmosfera di Black Monday, nelle sibilline, splendide melodie di Duplicity, Symmetry, Le Serpent Qui Danse e nella dolente solennità di No Doubt. È davvero un’infamia ridurre la Blue Note a scorta di motivetti “trendy” per DJ alla moda. - B.A.


ANDREW HILL - COMPULSION!!!!! (1965)

Servendosi di una sezione ritmica allargata, con batteria, conga e tamburi africani, Hill incise un lavoro in quattro movimenti, Compulsion!!!!!, inteso come omaggio all’eredità della tradizione negra. Fin dall’apertura - tamburi scuri e martellanti, secche interiezioni dei fiati, piano e contrabbasso percussivi e ribollenti - la concezione di Hill rivela una forza travolgente. - E.I.J.


ANDREW HILL - PAX (1965)

ANDREW HILL - CHANGE (1966)

ANDREW HILL - DANCE WITH DEATH (1968)

ANDREW HILL - DUSK (2000)

ANDREW HILL - A BEAUTIFUL DAY (2002)


DAVE HOLLAND / DEREK BAILEY - IMPROVISATIONS FOR CELLO AND GUITAR (1971)

Uno dei bassisti più originali e apprezzati. Lo contraddistinguono soprattutto il timbro strumentale e la solidità della pulsazione, rocciosa anche sui tempi più veloci. Il suo solismo è agile e maestoso, e a volte si apre in squarci di gusto quasi puntillistico. Dave Holland è tendenzialmente un purista e ha straordinarie doti di improvvisatore. Si è diviso tra jazz ortodosso e avanguardia, e non sembra avere preferenze neppure tra free-jazz americano e improvvisatori europei. Quando si è accostato al jazz-rock lo ha fatto senza mai involgarire la sua personale sintassi. L’album Improvisations For Cello And Guitar, in duo con l’avventuroso chitarrista Derek Bailey, segna forse il punto più avanzato del Dave Holland “sperimentale”. - E.I.J.


DAVE HOLLAND - CONFERENCE OF THE BIRDS (1972) FOREVER YOUNG

Lo squisito blend idiomatico di questo capolavoro si deve ai rispettivi retroterra dei quattro protagonisti: un davisiano reduce dalle sedute di In A Silent Way che, però, non abbracciò mai la causa elettrica (Dave Holland); un fuoriclasse della Blue Note divenuto poi caposcuola a New York negli anni Settanta (Sam Rivers); uno scienziato pazzo dell’avanguardia di Chicago che intitolava le proprie composizioni con formule matematiche (Anthony Braxton); un cane sciolto della batteria post-bop (Barry Altschul). L’album si apre con l’impetuosa folata eolica di Four Winds: l’energia motrice prodotta da Holland e Altchul alimenta l’esposizione del tema, l’alternanza dei fraseggi [Rivers (tenore); Braxton (soprano)] e il convulso accavallarsi dei medesimi prima del diligente riepilogo finale. Un ponderato assolo di Altschul introduce Q & A che, poi, si sviluppa in un fitto dialogo tra flauto e sax con reciproco scambio di ruoli tra Braxton (alto/flauto) e Rivers (flauto/tenore). L’evocativa melodia di Conference Of The Birds ricorda le ballad neo-bucoliche dei primi King Crimson (I Talk To The Wind; Cadence And Cascade; Prince Rupert Awakes). Il quartetto torna a dispiegare la propria indomita esuberanza strumentale sulle saettanti Interception e See-Saw. Strepitoso. - B.A.

Nel 1972, a collaboratori ormai consolidati come Barry Altschul e Anthony Braxton si aggiunge Sam Rivers, per l’incisione di Conference Of The Birds, prima opera a nome del contrabbassista, ricordata come uno dei momenti significativi del jazz contemporaneo. Dal punto di vista storico è il primo lavoro di un europeo che, alla testa di esponenti dell’avanguardia americana, elabora una sintesi legata al vecchio continente. Holland scrive tutte le composizioni, con richiami al folklore britannico, e coniuga in modo esemplare il ruolo di autore e leader con quello di accompagnatore e solista. Con questo e altri dischi del medesimo periodo, Holland emerge come uno dei massimi bassisti della propria epoca. Il suo stile, caratterizzato da un’intonazione perfetta e da una cavata poderosa, usa fraseggi nitidi e possenti anche nei tempi più veloci, segnando ogni brano con una particolare presenza ritmica, solida e concreta senza essere invadente, per la quale deve gratitudine a Miles Davis. - Angelo Leonardi


DAVE HOLLAND - JUMPIN’ IN (1983) FOREVER YOUNG

Conference Of The Birds venne giustamente catalogato fra le pietre miliari del jazz contemporaneo. Questo per dire quanto fosse attesa una seconda opera di gruppo guidata da questo straordinario maestro di contrabbasso e violoncello, compositore originalissimo, sideman di lusso con Miles Davis e Anthony Braxton. Jumpin’ In eguaglia il delicato lirismo e l’impagabile poesia di Conference Of The Birds, ed è senza dubbio un disco eccellente, sia sul piano della scrittura, che su quello dall’improvvisazione. L’equilibrio fra la tromba di Kenny Wheeler, il trombone di Julian Priester e il sax alto di Steve Coleman è perfetto, e le loro qualità solistiche di pregevole caratura. First Snow e Sunrise sono temi cantabili e ariosi, veicoli ideali per la limpida voce di Wheeler. - Filippo Bianchi

All’inizio del 1983 si concretizza il progetto del nuovo quintetto: due veterani del jazz moderno più avanzato (Kenny Wheeler e il trombonista Julian Priester), un quarantenne (il batterista Steve Ellington) e un giovane di talento (il sassofonista Steve Coleman). Canadese di nascita, Wheeler è un europeo a tutti gli effetti e si riallaccia al passato inglese del bassista; Priester rappresenta il filone boppistico più creativo, mentre Ellington e Coleman entrano come rappresentanti delle ultime due generazioni della musica afroamericana. La caratteristica di Jumpin’ In è l’equilibrio tra le parti scritte e le improvvisazioni. L’album, che Holland dedica espressamente a Charles Mingus, contiene sei temi del bassista e uno di Steve Coleman. Sono brani prevalentemente mossi, caratterizzati da sorprese ritmiche e assoli inseriti in parti d’insieme: una concezione tipicamente mingusiana, sulla quale Holland non si appiattisce, introducendo da un lato episodi polifonici liberamente improvvisati (You I Love) e dall’altro brani preziosi e raffinati (First Snow; Sunrise), dall’evidente prospettiva colta. - Angelo Leonardi


DAVE HOLLAND - SEEDS OF TIME (1984) FOREVER YOUNG

Stessi musicisti di Jumpin’ In tranne Steve Ellington, sostituito da Marvin “Smitty” Smith. In Seeds Of Time emerge la figura di Steve Coleman (sax alto), che proprio accanto al bassista giunge a piena maturazione, portando a compimento una sintesi tra bop e innovazioni ritmiche. I segni si colgono in una musica avvincente, in tensione tra le libertà espressive post-free e le forme della tradizione afro-americana. La regia di Holland elabora un percorso variopinto e ricco di sorprese: da Perspicuity, un brano per flauto a metà tra Dolphy e West Coast Jazz, al vivace funk di Celebration, al mingusiano World Protection Blues, alla particolare struttura metrica di Uhren. Down Beat assegna all’album cinque stelle. - Angelo Leonardi


DAVE HOLLAND - THE RAZOR’S EDGE (1987) FOREVER YOUNG

Nel febbraio 1987 il quintetto di Holland registra The Razor’s Edge; al trombone anziché Priester c’è Robin Eubanks. L’apertura alle nuove leve del jazz (e soprattutto ai giovani affiliati al movimento creativo M-Base) si fa esplicita, talvolta anche nella musica. Ma neppure i temi più travolgenti dal punto di vista ritmico sfuggono al controllo formale del bassista, che tiene saldamente in pugno le redini della musica. Come negli altri lavori in quintetto, Holland continua a fare a meno del pianoforte per meglio disegnare un percorso caratterizzato da geometrie lucidissime: un hard-bop spigoloso, tendenzialmente astratto e velato d’angoscia. Solo in qualche momento (per esempio in Blues For C.M., nuovo omaggio a Mingus) la tensione si distende e la musica si abbandona con passione tra le braccia della tradizione nera. - Angelo Leonardi


DAVE HOLLAND - TRIPLICATE (1988) FOREVER YOUNG

L’album rappresenta la consacrazione ufficiale di Steve Coleman nell’olimpo dei protagonisti del jazz: il sassofonista dialoga alla pari con la ritmica, disegnando figure dal dinamismo serrato. Il trio si muove con ammirevole coesione sui crinali più impervi. Holland e Jack DeJohnette stimolano Coleman ad affrontare con determinazione aspetti musicali diversi, dai classici del jazz (Take The Coltrane di Duke Ellington) al camerismo astratto di marca post-free (Quiet Fire), fino alla musica tradizionale africana (African Lullaby). Fresco e immediato, Triplicate coniuga la grinta del bebop con l’approccio austero dell’avanguardia anni '70: si aggiudicò il titolo di miglior disco dell’anno nel referendum indetto da Down Beat. - Angelo Leonardi


DAVE HOLLAND - EXTENSIONS (1989)

Holland dà vita a un quartetto in cui riconferma Steve Coleman e inserisce uno strumento armonico, la chitarra di Kevin Eubanks. In realtà la formazione è un ampliamento di quella che (con Marvin “Smitty” Smith al posto di DeJohnette) ha portato in tour il materiale di Triplicate. Eubanks è un chitarrista dal passato fusion, e il suo ingresso in un gruppo così rigoroso sembra azzardato, ma Holland ne stimola le doti migliori, fino a trovare in lui un partner efficacissimo. Questa volta la musica ha un aspetto meno astratto e spigoloso: i brani sono danzanti, cantabili, e ai solisti viene concesso molto spazio. Gli stilemi dei dischi precedenti sono ancora presenti, ma l’ingresso del chitarrista aiuta a definire una sintesi nuova, più vicina alle forme del mainstream e caratterizzata da una disteso interplay. Uno dei momenti più accattivanti, da questo punto di vista, è offerto dal lungo ed evocativo The Oracle. - Angelo Leonardi


DAVE HOLLAND - DREAM OF THE ELDERS (1995)

La nuova formazione [Eric Person (sax alto); Steve Nelson (vibrafono); Gene Jackson (batteria)] conferma l’autorevolezza della leadership di Holland e le linee di fondo della sua sintesi espressiva: una musica poetica e di largo respiro, mossa da una lucida tensione collettiva. Ancora una volta, il contrabbassista rinuncia al pianoforte per meglio caratterizzare i propri legami con il folklore nord-europeo. - Angelo Leonardi


DAVE HOLLAND - POINTS OF VIEW (1997)

DAVE HOLLAND - PRIME DIRECTIVE (1998) FOREVER YOUNG

DAVE HOLLAND - NOT FOR NOTHIN’ (2000) FOREVER YOUNG

DAVE HOLLAND - EXTENDED PLAY / LIVE AT BIRDLAND (2001)

DAVE HOLLAND - WHAT GOES AROUND (2002)

DAVE HOLLAND - OVERTIME (2005)

DAVE HOLLAND - CRITICAL MASS (2006)

DAVE HOLLAND - PASS IT ON (2008)


ELMO HOPE - ELMO HOPE TRIO (1959)

In un primo tempo fu considerato, riduttivamente, un emulo di Bud Powell. Viceversa, il suo pianismo sviluppò ben presto una caratteristica, divagatoria elusività che nulla ha di derivativo. Il suo errore fu quello di trasferirsi sulla Costa Occidentale proprio quando era ad Est che si dettavano con vigore le linee del rinnovamento. Hope incise anche con John Coltrane e Hank Mobley, tuttavia i brani in trio danno più spazio alla sua concezione pianistica singolarmente mobile ed elastica. Il miglior album è Elmo Hope Trio, con lo straordinario batterista Frank Butler, la cui inventiva gareggia con quella del pianista. Il quieto, eccentrico lirismo di Hope, in composizioni quali Eejah e Barfly, è di rara suggestione. Altri interpreti congeniali al suo mondo furono il tenorista Harold Land (The Fox) e il bassista Curtis Counce (Exploring The Future): in entrambi i casi il batterista è ancora Butler. - E.I.J.


NOAH HOWARD - SPACE DIMENSION (1970)


FREDDIE HUBBARD - OPEN SESAME (1960) FOREVER YOUNG

FREDDIE HUBBARD - GOIN’ UP (1961) FOREVER YOUNG

Freddie Hubbard si prodigò come session-man in numerose incisioni della Blue Note, a fianco di Tina Brooks (True Blue), Dexter Gordon (Doin’ Allright), Herbie Hancock (Takin’ Off), Jackie McLean (Bluesnik), Hank Mobley (Roll Call), Kenny Drew (Undercurrent), e come leader di propri complessini (Open Sesame; Goin’ Up). Egli si dimostrò abbastanza versatile da suonare “free” con Ornette Coleman (Free Jazz) ed Eric Dolphy (Out To Lunch!), ma il suo fraseggio ortodosso ne ha sempre fatto un solista più adatto all’improvvisazione armonica. - E.I.J.


FREDDIE HUBBARD - HUB CAP (1961) FOREVER YOUNG

FREDDIE HUBBARD - READY FOR FREDDIE (1961) FOREVER YOUNG

FREDDIE HUBBARD - HUB-TONES (1962) FOREVER YOUNG

FREDDIE HUBBARD - HERE TO STAY (1962) FOREVER YOUNG

FREDDIE HUBBARD - THE ARTISTRY OF FREDDIE HUBBARD (1962)

Con i cinque album incisi nel biennio 1961/1962, rendiamo omaggio a un maestro della tromba in occasione della sua recente, prematura scomparsa (1938/2008). Freddie Hubbard era un virtuoso inarrivabile, un solista ispirato e uno straordinario compositore: pochi altri possedevano le stesse doti in egual misura e a un così alto livello. Entrato nella storia con le prestigiose partecipazioni a Free Jazz e The Blues And The Abstract Truth, dopo un paio di titoli a proprio nome (Open Sesame; Goin’ Up) il giovanotto di Indianapolis era già membro stabile della Blue Note e sotto contratto anche con la Impulse!. Il sestetto di Hub Cap schiera il veterano Jimmy Heath (sax tenore) accanto a Julian Priester (trombone) e Cedar Walton (pianoforte). Nella scaletta brilla una splendida pagina di Randy Weston arrangiata da Melba Liston (Cry Me Not), che richiama molto le dolenti atmosfere del capolavoro Out Front. Su Ready For Freddie, l’euphonium di Bernard McKinney subentra al trombone, donando un tocco di morbidezza agli impasti strumentali. Con l’ingresso in formazione di Wayne Shorter (sax tenore), McCoy Tyner (pianoforte), Elvin Jones (batteria), assistiamo a un summit tra i protagonisti degli storici gruppi di Miles Davis e John Coltrane. A dispetto della fama di “scattista”, Freddie danza leggiadro sulle armonie di Weaver Of Dreams, da cui distilla un meraviglioso assolo accompagnato dalle spazzole. Quasi preconizzando la crisi cubana (Ottobre 1962), Crisis evoca la paura della bomba atomica e, di lì a poco, sarà ripresa dall’autore durante la militanza nei Jazz Messengers di Art Blakey (Mosaic). A parte Art Davis (contrabbasso), il personale cambia ancora su The Artistry Of Freddie Hubbard: due standard (Caravan; Summertime) e tre pezzi originali (Bob’s Place; Happy Times; The 7th Day) danno fondo alle risorse espressive di campioni come Curtis Fuller (trombone), John Gilmore (sax tenore), Tommy Flanagan (pianoforte), Louis Hayes (batteria). Appena traslocato da Hackensack al nuovo studio di Englewood Cliffs, Rudy Van Gelder equalizzava i suoni secondo le diverse esigenze dei produttori: un’eco più avvolgente per Bob Thiele, rispetto alla timbrica naturale richiesta da Alfred Lion. Alla ricerca di una maggiore concisione, l’organico si restringe a quintetto su Hub-Tones, ma la scorta dei colori disponibili aumenta con l’arrivo di James Spaulding (sax alto / flauto), solista dotato di una voce che, sull’esempio di Eric Dolphy e Jackie McLean, si spinge spesso al limite della tonalità. Nonostante le premesse, il clima generale è assorto, rilassato, dominano le ballad (You’re My Everything; Prophet Jennings; Lament For Booker), e solo la burrascosa fuga della title-track riesce a travolgere l’oasi di quiete. Here To Stay è un esplicito manifesto hard-bop, con la fulminea partenza di Philly Mignon che oppone il pirotecnico stile di Hubbard al fraseggio “legato” di Shorter, e l’altalenante ritmica di Nostrand And Fulton che sottopone il tempo in ¾ a un continuo andirivieni. Dal repertorio del collega Cal Massey sono tratte Father And Son e Assunta, l’una risalente a una session della Candid rimasta inedita fino al 1987 (Blues To Coltrane), l’altra interpretata l’anno prima da Bill Hardman per la Savoy (Saying Something). Il linguaggio di Hubbard è complesso, articolato, inconfondibile, e consta di note esplose a grappolo, ruminate a velocità supersonica, arrochite da effetti di mezzo pistone, infine risolte in lunghe emissioni “tenute”. All’ascoltatore non è concesso un attimo di tregua. - B.A.


FREDDIE HUBBARD - BREAKING POINT (1964)

Il suo solismo corposo e romantico sulle ballad è ben rappresentato da You’re My Everything (Hub-Tones) e But Beautiful (Open Sesame), mentre l’altro suo versante, più in bilico tra armonia e brani atonali, è esemplificato dall’album Breaking Point. - E.I.J.


FREDDIE HUBBARD - BLUE SPIRITS (1966)


FREDDIE HUBBARD - BACKLASH (1966)

FREDDIE HUBBARD - HIGH BLUES PRESSURE (1967)

Primo album per la Atlantic, contiene un paio di esecuzioni soul, Backlash e The Return Of The Prodigal Son. - E.I.J.

High Blues Pressure contiene un brano, Can’t Let Her Go, in cui il ritmo in levare e i riff richiamano non poco The Sidewinder di Lee Morgan. I due pezzi arricchiti dalla magistrale percussione di Louis Hayes (True Colors; For B.P.) sono eccellenti esempi della splendida articolazione dei fraseggi a tempo veloce di Hubbard. - E.I.J.


FREDDIE HUBBARD - A SOUL EXPERIMENT (1969)

FREDDIE HUBBARD - THE BLACK ANGEL (1969)

FREDDIE HUBBARD - THE HUB OF HUBBARD (1969)


FREDDIE HUBBARD - RED CLAY (1970) FOREVER YOUNG

Hubbard ha inciso con la CTI un primo disco di splendida fattura, nobilitato da ampi squarci solistici di Joe Henderson al sax tenore e Herbie Hancock al piano elettrico. - E.I.J.

Il primo album inciso per la CTI illustra e sintetizza in modo esemplare le varie anime di Freddie Hubbard: il jazzista integerrimo, il virtuoso inarrivabile e l’artista aperto alle contaminazioni. Il quintetto “modificato” dall’innesto del piano elettrico (Red Clay; Suite Sioux; The Intrepid Fox) e dell’organo (Delphia) propone una formula inconsueta, che amplia la tavolozza dei colori disponibili e conferisce una nota di innegabile originalità al tessuto musicale, altrimenti legato a un contesto tipicamente hard-bop: mentre il contrabbasso di Ron Carter danza con l’irrequieta batteria di Lenny White, Hubbard (tromba) e Joe Henderson (sax tenore) dialogano con Herbie Hancock (tastiere), dispensando con generosità assoli magistrali. La ristampa CD contiene una versione inedita di Cold Turkey, di John Lennon. - B.A.


FREDDIE HUBBARD - STRAIGHT LIFE (1970) FOREVER YOUNG

FREDDIE HUBBARD - SKY DIVE (1972) FOREVER YOUNG

Comuni amici - l’anonimato è d’obbligo - ci riferiscono di un vostro profondo disagio riguardante quei pochi ma indispensabili minuti/centimetri che vi mancherebbero per fare bella figura con la morosa … su con la vita, buttate nel cesso le miracolistiche pillole azzurre, rispedite al mittente l’irriguardoso slogan “enlarge your penis” … abbiamo la soluzione per voi: Straight Life e Sky Dive di Freddie Hubbard. Ci crediate o meno, con l’ascolto accurato e frequente di entrambi questi album ritroverete la fiducia in voi stessi. L’accorta, lungimirante supervisione di Creed Taylor - guru della CTI - aveva propiziato il capolavoro Red Clay, trasformando un classico disco hard-bop, seppure moderno e brillante, in un salto nel futuro con la semplice adozione del prodigioso piano elettrico di Herbie Hancock.
Straight Life - Al fine di accumulare preziose riserve di ossigeno per i propri interventi, Hubbard potenzia quella medesima formazione - colleghi e virtuosi di pari lignaggio, allievi di Miles Davis o campioni della scuderia Blue Note (Herbie Hancock, Ron Carter, Joe Henderson) - sostituendo il batterista (Jack DeJohnette a posto di Lenny White), innestandovi un paio di percussionisti e, soprattutto, reclutando il fenomeno George Benson. L’intesa tra Hubbard e Benson, in particolare, risalta sull’assorto dialogo ispirato dall’immortale spartito di Here’s That Rainy Day, mentre il portentoso collettivo procede implacabile sulla suite Straight Life, con i più grandi improvvisatori del pianeta intenti a tradurre in musica sublime pensose considerazioni esistenziali*. L’intima indole funky di Hubbard, Hancock e Benson ha modo di manifestarsi sull’ossessiva pulsazione ritmica di Mr. Clean.
Sky Dive - Dopo l’accattivante First Light - anch’esso ricco di momenti pregevoli - per il nuovo progetto Hubbard allestisce un ampio ensemble di fiati condotti da Don Sebesky (oboe, clarinetti, flauti, ottoni), affiancandolo al consueto combo di prim’ordine (George Benson, Keith Jarrett, Ron Carter, Billy Cobham): una solenne versione jazz della colonna sonora scritta da Nino Rota per Il Padrino (The Godfather), l’intensa interpretazione di un polveroso standard di Bix Beiderbecke (In A Mist), un’elegante pagina autografa (Povo) che lo stesso autore rileggerà prima con Stanley Turrentine (In Concert Volume One), poi insieme a Benny Golson (Stardust), una sofisticata performance orchestrale (Sky Dive) in cui si succedono splendidi assoli di Hubbard, Benson, Jarrett e Hubert Laws al flauto. Su entrambi i CD, la pirotecnica tromba di Hubbard travolge i pur dinamici arrangiamenti con un’energia indefessa, esalando quasi in apnea fraseggi spaventosi … dai, dai, dai che con Hubbard ce la fai … (P.S. - *Qualunque idea sottintendesse il titolo, il colpo d’occhio fronte/retro della copertina di Pete Turner - dal Partenone alla Statua della Libertà - è straordinario.) - B.A.


FREDDIE HUBBARD - FIRST LIGHT (1971)

FREDDIE HUBBARD - KEEP YOUR SOUL TOGETHER (1974)

FREDDIE HUBBARD - POLAR AC (1974)

FREDDIE HUBBARD - HIGH ENERGY (1974)

FREDDIE HUBBARD - WINDJAMMER (1975)

FREDDIE HUBBARD - LIQUID LOVE (1976)

FREDDIE HUBBARD / WOODY SHAW - DOUBLE TAKE (1985)

FREDDIE HUBBARD / WOODY SHAW - THE ETERNAL TRIANGLE (1987)

FREDDIE HUBBARD - OUTPOST (1981)

DANIEL HUMAIR - EDGES (1991)

BOBBY HUTCHERSON - THE KICKER (1963)

BOBBY HUTCHERSON - DIALOGUE (1965)

BOBBY HUTCHERSON - HAPPENINGS (1966)

BOBBY HUTCHERSON - COMPONENTS (1965)


BOBBY HUTCHERSON - STICK-UP! (1966)

BOBBY HUTCHERSON - TOTAL ECLIPSE (1968)

Due classici quintetti di tardo hard-bop in cui, però, il ruolo della tromba è svolto dal vibrafono. Su entrambi gli album, titolare e protagonista è Bobby Hutcherson. Abbiamo abbinato Stick-Up! e Total Eclipse per via delle formazioni, diverse ma analoghe: sax tenore e pianoforte affidati, rispettivamente, a una coppia di fuoriclasse (Joe Henderson, Harold Land) e a una di capiscuola (McCoy Tyner, Chick Corea).
Stick-Up! - L’introduzione riprende una pagina di Ornette Coleman (Una Muy Bonita), indiscutibile prova di apertura mentale, sebbene l’arrangiamento ne estrapoli e accentui l’anima calypso: decisivo il contributo di Billy Higgins, discepolo dell’autore e presente in studio durante la storica seduta “free” (8 Ottobre 1961). Una duplice, impressionante parata di assoli si dipana con identica sequenza (tenore/vibrafono/pianoforte) lungo gli scoscesi pendii metrici di 8/4 Beat e Black Circle. Su Summer Nights Henderson si fa da parte per lasciare il proscenio a Tyner e Hutcherson: concepita a tarda notte, è una ballad da ascoltare al buio. I tre solisti si alternano in ulteriori, splendidi interventi sull’affannoso valzer di Verse e sull’intricato tema di Blues Mind Matter. Spettacolari i fraseggi di Henderson, maestro di equilibrismo espressivo, sempre in bilico tra libertà e ortodossia. Stupefacente Tyner che, nel curriculum, vantava già esperienze prestigiose con Jazztet e Coltrane. Herbie Lewis al contrabbasso.
Total Eclipse - Lo stesso tipo di organico strumentale subisce un ricambio in tutti i reparti, eccetto quello del titolare: Harold Land (sax tenore, flauto), Chick Corea (pianoforte), Reggie Johnson (contrabbasso), Joe Chambers (batteria). Si parte a razzo con lo swing di Herzog, in cui il giovane Corea esibisce una sorprendente maturità aprendo il varco delle improvvisazioni al veterano Land e al coetaneo Hutcherson. Sulla stessa falsariga ritmica, Total Eclipse e Matrix allestiscono una vetrina di lusso per le vivaci schermaglie della prima linea. Same Shame rallenta l’andatura agevolando così un interplay più ponderato, mentre un flauto pastorale apre e chiude lo svolgimento anarcoide di Pompeian. - B.A.


BOBBY HUTCHERSON - OBLIQUE (1967)

BOBBY HUTCHERSON - PATTERNS (1968)

BOBBY HUTCHERSON - MEDINA (1969)

IDEAL BREAD - THE IDEAL BREAD (2008)

IDEAL BREAD - TRANSMIT (2010)

YOSUKE INOUE - SPEAK UP (1997)

 

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