Introduzione / Introduction
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THE VOICE OF MUSIC ... LA VOCE DELLA MUSICA
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FUSION

A-M

HORACEE ARNOLD - TRIBE (1973) FOREVER YOUNG

HORACEE ARNOLD - TALES OF THE EXONERATED FLEA (1974)

Immaginate di scoprire per caso un paio di oscuri album del biennio 1973/1974 a cui partecipino come ospiti Ralph Towner e John Abercrombie … sconcerto, smarrimento, trepidazione … infine sollievo, grazie alla splendida ristampa CD della MIG. Batterista dalle molteplici e disparate esperienze (Rahsaan Roland Kirk, Charles Mingus etc.), in possesso di tecnica impeccabile e gusto sopraffino, Arnold approda all’esordio individuale grazie a un contratto con la Columbia (all’epoca finanziavano questa roba …): i due dischi prodotti sono oggi considerati parte integrante della vicenda fusion*.
Tribe - La straordinaria formazione schiera Horacee Arnold (batteria), Joe Farrell (flauto, sax), Ralph Towner (chitarra), George Mraz (contrabbasso), David Friedman (vibrafono, marimba, xilofono), Ralph MacDonald (percussioni). Indicando la tribù come modello virtuoso di nucleo sociale, Arnold si giova del tocco acustico di Towner per arricchire di echi etnici l’introduttiva Tribe e l’amazzonica Forest Games. Gli arrangiamenti cameristici di Banyan Dance, Orchards Of Engedi, The Actor evocano le migliori pagine del glorioso loft jazz: vi si apprezzano stupendi fraseggi di Friedman e Farrell, oltre ai pregevolissimi assoli del titolare. 500 Miles High offre una rilettura esclusivamente strumentale della canzone scritta da Chick Corea per il secondo capitolo dei Return to Forever (Light As A Feather), alla cui registrazione contribuì lo stesso Farrell come membro fondatore della band.
Tales Of The Exonerated Flea - L’organico subisce un rimpasto con l’ingresso di Art Webb e Sonny Fortune al posto di Farrell, la conferma di Friedman e Towner, il reclutamento di John Abercrombie, Jan Hammer più vari percussionisti. La musica assume una forma circolare, sviluppando moduli ritmici uniformi e iterativi entro cui le note esplose dai solisti rimbalzano come palline da flipper: l’ascoltatore rimane sedotto dal cinguettante flauto di Webb e rapito dall’allucinogeno sax soprano di Fortune, mentre la coppia elettrica Abercrombie/Hammer anticipa le precipitose fughe del capolavoro Timeless, pubblicato dalla ECM nello stesso anno. Se le lunghe improvvisazioni salmodianti di Puppet Of The Season, Sing Nightjar, Benzélé Windows, Tales Of The Exonerated Flea creano una suggestiva atmosfera post-psichedelica, sull’epilogo di Euroaquilo Silence prevale la componente elettronica. [P.S. - *L’annessione di Horacee Arnold al genere fusion rischia di risultare arbitraria ma, dal momento che egli vi è abitualmente soggetto, l’abbiamo mantenuta a beneficio di una più agevole ricerca.] - B.A.


BURT BACHARACH - REACH OUT (1967)

BURT BACHARACH - MAKE IT EASY ON YOURSELF (1969)

BURT BACHARACH - BURT BACHARACH (1971)

BURT BACHARACH - LIVING TOGETHER (1973)

BURT BACHARACH - FUTURES (1977)

BURT BACHARACH - WOMAN (1979)

JEFF BECK - BLOW BY BLOW (1975)


JEFF BECK - WIRED (1976)

Nell’era degli unplugged fatti su misura per quest’umanità decerebrata ed esangue, cosa c’è di più sovversivo e fuori moda di un album strumentale ed elettrico, aperto all’improvvisazione e inciso con la regia del produttore dei Beatles? In una scaletta più che pregevole, almeno due brani valgono l’acquisto di Wired. Intramontabile classico fusion scritto da Max Middleton, il feroce riff di Led Boots aizza l’aggressività di Jeff Beck e Jan Hammer che, con la “solid body” e il sintetizzatore, sparano micidiali traccianti addosso alla coppia ritmica [Wilbur Bascomb (basso); Narada Michael Walden (batteria)]. Con Goodbye Pork Pie Hat, il lamento funebre dedicato da Charles Mingus a Lester Young diventa un blues elettrico in cui la chitarra espone diligentemente la bellissima, straziante melodia, per poi abbandonarsi al rito pagano del feedback: insieme alla stupenda versione di Ralph Towner e Gary Burton (Matchbook), è forse la più riuscita lettura quell’immortale pagina jazz. - B.A.


GEORGE BENSON - THE OTHER SIDE OF ABBEY ROAD (1969) FOREVER YOUNG


GEORGE BENSON - SHAPE OF THINGS TO COME (1969) FOREVER YOUNG

GEORGE BENSON - BEYOND THE BLUE HORIZON (1971) FOREVER YOUNG

GEORGE BENSON - WHITE RABBIT (1971) FOREVER YOUNG

GEORGE BENSON - BODY TALK (1973) FOREVER YOUNG

GEORGE BENSON - BAD BENSON (1974) FOREVER YOUNG

GEORGE BENSON - GOOD KING BAD (1974) FOREVER YOUNG

GEORGE BENSON - BREEZIN’ (1976) FOREVER YOUNG

Da qui riusciamo a vedervi … maniere cordiali, indole altruista, pollice verde, i CD Blue Note ed ECM gelosamente custoditi nello scaffale … eppure il mosaico appare incompleto … cosa vi manca ancora per debellare il virus del Gioca Jouer? ma certo, è chiaro, il catalogo dei tesori CTI! Appena scomparso (prematuramente) Wes Montgomery, il mai troppo acclamato Creed Taylor avvertì subito la necessità di reclutare un nuovo messia della chitarra … col suo inarrivabile fiuto di “talent scout” egli capì che George Benson era l’uomo giusto … appena cresimato alla corte di Miles Davis (Miles In The Sky), Benson riformava lo stile di Montgomery adattando quei funambolici fraseggi bop - di cui era altrettanto padrone - alle armonizzazioni introdotte dalla fusion … i titoli incisi dal 1968 al 1976 sono tutti capolavori.
Shape Of Things To Come - L’idioma è ancora quello di un qualsiasi LP soul-jazz del periodo, ma con un prezioso supplemento di nitore ed eleganza aggiunto dall’inimitabile tocco di Taylor. Con Herbie Hancock o Hank Jones alle tastiere, Ron Carter o Richard Davis al contrabbasso, Idris Muhammad alla batteria la qualità del supporto propulsivo è garantita. Un conformista ma delizioso fremito beat-samba caratterizza quasi tutti i brani - l’iniziale Footin’ It, la magnifica Shape Of Things To Come di Barry Mann e Cynthia Weil, la coeva ma già famosa Don’t Let Me Lose This Dream di Aretha Franklin (I Never Loved A Man The Way I Love You), gli evergeeen “ferroviari” Chattanooga Choo Choo e Last Train To Clarksville - a curiosa eccezione proprio dei pezzi migliori: Face It Boy, It’s Over, commovente canzone di Angelo Badalamenti (Face It Girl, It’s Over), Shape Of Things That Are And Were, superlativa performance blues-swing di Benson.
Beyond The Blue Horizon - Dati i pochi soldi a disposizione di Creed Taylor, che voleva comunque fargli registrare nuovo materiale per la CTI ormai avviata, Benson rinuncia al superfluo e torna alla formula tradizionale del quartetto Gibson/Hammond con cui aveva esordito all’epoca della militanza nel combo di Jack McDuff; la band è comunque pazzesca grazie ai discepoli davisiani Ron Carter (contrabbasso) e Jack DeJohnette (batteria) e all’irreprensibile professionista Clarence Palmer (organo); l’interpretazione accelerata di So What è da antologia e, sebbene Carter e DeJohnette fossero assenti dalle sedute di Kind Of Blue, il chilometrico ruolino di esecuzioni live agli ordini di Davis dotava comunque entrambi di un’estrema confidenza con quella pagina immortale; un’evocativa eco sudamericana si riflette sulle gocce di The Gentle Rain, con Benson e Palmer che uniscono i punti segnati dal grande Luiz Bonfá; l’orecchiabile, accattivante tema di All Clear profetizza fisionomia espressiva e successo planetario di Breezin’, allora come poi senza mai un compromesso sul piano artistico; l’insuperabile magistero di George è ancora in evidenza sulle digressioni esotiche di Ode To A Kudu, sorta di serenata nella savana, e Somewhere In The East, carica di suggestioni orientali. Risalente al 1964, la sensazionale foto di Pete Turner incapsula nel fotogramma le fiamme di un pozzo della Standard Oil in Libia … sì, il tempo vola …
White Rabbit - È il disco in cui più forte risulta l’influenza latina, anche grazie al contributo di Airto Moreira, che adorna con ispirati vocalizzi la struggente melodia di Theme From “Summer Of ‘42” [meglio nota ai cultori di Sinatra come The Summer Knows (Some Nice Things I’ve Missed)], l’incalzante andatura di Little Train, l’epico sviluppo narrativo di El Mar, su cui esordisce un giovanissimo Earl Klugh; i magnifici arrangiamenti di White Rabbit dei Jefferson Airplane e di California Dreamin’ dei Mamas & Papas servono a stringere un legame con l’attualità; forma e sostanza garantite ai massimi livelli, rispettivamente, dal memorabile ritratto di una donna Mpondo scattato da Pete Turner e dalle fondamenta metriche edificate da Herbie Hancock, Ron Carter, Billy Cobham.
Body Talk - Introdotto da un’altra brillante inquadratura di Pete Turner, il capitolo del 1973 snocciola raffinati progressi tecnici e creativi che contribuiranno ad aggiornare un lessico ancora in fase di sviluppo: su Dance e Body Talk i ghirigori di Benson si appoggiano agli ipnotici riff elettrici scanditi da Klugh; l’insopprimibile gusto di George per i motivi cantabili traspare dalle autografe Plum e Top Of The World, per poi rifulgere su When Love Has Grown, classico tratto dal primo album omonimo di Roberta Flack e Donny Hathaway (Roberta Flack & Donny Hathaway); l’impeccabile puntello di Harold Mabern (piano elettrico), Ron Carter o Gary King (basso), Jack DeJohnette (batteria) è occasionalmente decorato dalle rifiniture orchestrali di Pee Wee Ellis.
Bad Benson - Partenza bruciante con la rilettura di Take Five*, celeberrimo 5/4 scritto da Paul Desmond per Dave Brubeck (Time Out), qui squadrato a beneficio del prodigioso interplay tra Benson e un’impressionante sezione ritmica (Kenny Barron, Ron Carter, Steve Gadd); Summer Wishes, Winter Dreams è poco più che un pretesto per rendere omaggio a Johnny Mandel con la semiacustica, mentre la scansione di My Latin Brother sprigiona uno squisito retrogusto ispanico; subentrato a Earl Klugh nel ruolo di “accompagnatore” del leader, Phil Upchurch porta in dote l’incantevole sequenza di accordi spremuta col “pedale volume” di No Sooner Said Than Done e i sussulti quasi-progressive di Full Compass; The Changing World mette in vetrina l’intreccio timbrico tra le nuance di George e i contrappunti di Don Sebesky; tra gli inediti recuperati per l’edizione CD, almeno due gioelli: Serbian Blue, dedicata da Sebesky alle proprie origini jugoslave, una travolgente improvvisazione nobilitata dall’incredibile sfida fra Benson e Barron; From Now On, ispiratissimo saggio eseguito in splendida solitudine; pleonastica la versione di Take The “A” Train, un po’ troppo ammiccante alle balere e opportunamente esclusa dalla scaletta del vinile.
Good King Bad - La pulsazione “dance” della title-track non inganni l’ascoltatore più retrivo … l’assiduo impegno profuso da Creed Taylor per sfondare aveva richiesto la delega a un supervisore del calibro di David Matthews e il ricorso a uno stuolo di specialisti di lusso convocati all’uopo (Brecker Brothers, David Sanborn, Don Grolnick, Eric Gale, Steve Gadd, Andy Newmark, David Friedman etc.), senza tuttavia ammettere alcun cedimento sul piano dei contenuti; le composizioni esclusivamente “importate” rappresentano l’unica differenza significativa rispetto al passato prossimo: i tre contributi di Matthews - Theme From “Good King Bad”, One Rock Don’t Make No Boulder, Siberian Workout - coniugano l’esuberanza del passo col necessario spazio riservato all’estro di Benson, esaltato dagli acrobatici arabeschi a doppia corda stoppata; l’onirica atmosfera di Em si deve alla penna di Phillip Namanworth, mentre Cast You Fate To The Wind e Shell Of A Man, affini alle innovazioni linguistiche di Bob James, recano i prestigiosi sigilli, rispettivamente, di Vince Guaraldi ed Eugene McDaniels. Per quel che vale (poco o nulla), nel 1977 Theme From “Good King Bad” vinse un Grammy.
Breezin’ - Ultimando l’eccellente Benson & Farrell nello studio di Rudy Van Gelder insieme al collega di scuderia Joe Farrell, George risolve ufficialmente il fecondo rapporto con la CTI. Con l’approdo del fuoriclasse alla Warner, il destino crudele che ha spesso contraddistinto le vicende contrattuali delle etichette negli anni Settanta incaricherà il pur valentissimo Tommy LiPuma di raccogliere i frutti del pluriennale, certosino lavoro di Creed Taylor. È proprio LiPuma che suggerisce a Benson l’irresistibile refrain di Bobby Womack impiegato in una precedente produzione Blue Thumb per Gábor Szabó (High Contrast): da pregevole preludio per un’opera forse destinata all’oblio, Breezin’ diventerà l’inno di una generazione felice (quella che si salvò da punk, febbre, riflusso), coniugando mirabilmente spessore musicale e riscontro commerciale. Con lo stesso criterio da fine intenditore Benson riesuma Affirmation, sbalorditiva invenzione di José Feliciano scovata nel suo Just Wanna Rock ‘n’ Roll, un’inestimabile perla ripresa tale e quale perché già perfetta nel disegno originale. This Masquerade segna un clamoroso spartiacque culturale che influenzerà in modo decisivo anche il già maturo movimento dei cantautori A.O.R.: Benson sublimerà le imperiture parole e note concepite da Leon Russell in una sofisticata ballad metropolitana ad alto tasso strumentale, generando un quid che le pur indispensabili cover di Helen Reddy (I Am Woman) e Carpenters (Now & Then) non erano riuscite a conferirle. Con l’edonistico tris di Six To Four, So This Is Love?, Lady, un’impareggiabile formazione comprendente Ronnie Foster (tastiere), Phil Upchurch (chitarra), Stanley Banks (basso elettrico), Harvey Mason (batteria), Claus Ogerman (archi, legni, ottoni) procura al “bon vivant” di turno l’ideale colonna sonora per goderecci aperitivi in terrazza o spensierate gite in barca a vela. Quattro Grammy. [P.S. - 1) *Il Long Playing fu ristampato anche come Take Five, con copertina alternativa; 2) Pochi mesi dopo (Maggio 1976) Cybill Shepherd conquisterà un clamoroso “ex aequo” realizzato in coppia con Stan Getz (Mad About The Boy / Cybill Getz Better).] - B.A.


GEORGE BENSON - IN FLIGHT (1976)

GEORGE BENSON - LIVIN’ INSIDE YOU LOVE (1977)


GEORGE BENSON / EARL KLUGH - COLLABORATION (1987)

Chi altri, se non quel volpone di Tommy LiPuma, poteva concepire un progetto a prima vista scontato eppure talmente logico da apparire persino ineluttabile? Già lungimirante regista della svolta di Breezin’, exploit in classifica di George Benson, nonché autorevole padrino di Livin’ Inside Your Love*, rendezvous al vertice con Earl Klugh, LiPuma fiuta il momento giusto per riunire in studio i due virtuosi: la stagione d’oro della fusion era ormai al tramonto, eppure il mondo aveva ancora bisogno di quei suoni. Assemblata la sezione ritmica perfetta - Greg Phillinganes, Marcus Miller, Harvey Mason - il produttore dispensa a Benson e Klugh pochi, saggi consigli: se la vita spesso fa pena ma l’arte può riscattare l’uomo, allora che siano melodia, serenità e improvvisazione a go go. Detto fatto. L’introduttiva Mt. Airy Road evoca le atmosfere dell’indimenticabile Livin’ Inside Your Love, restituendoci il piacere di ascoltare due talenti puri colti in stato di grazia: il suadente tema esposto all’unisono, lo scat che doppia la chitarra semi-acustica e le corde di nylon come fattore sorpresa. Il lungo assolo di George su Mimosa è da antologia, un capolavoro di tecnica prodigiosa e fantasia inesauribile. Jamaica (A Little Island Of Calm) reca la prestigiosa firma di Randy Goodrum e sarà ripresa anche da Mark Murphy sul magnifico What A Way To Go. L’incantevole connubio tra il tocco di Klugh e i guizzi di Benson è ancora in evidenza su Brazilian Stomp, Dreamin’, Collaboration e Since You’ve Gone. Di fronte a tale cornucopia, la “stampa specializzata” ebbe la stessa reazione stitica con cui sei anni dopo accoglierà il superbo I Can See Your House From Here di John Scofield e Pat Metheny … aveva ragione Frank Zappa, per certa gente «substance is a bore». [P.S. - *Living Inside Your Love, splendido “instant classic” del secondo album di Earl Klugh, da questi composto con Dave Grusin, piacque a George Benson, che lo riprese in pompa magna registrandolo insieme al collega in un doppio Long Playing quasi omonimo (Livin’ Inside Your Love) e facendone un successo internazionale.] - B.A.


BRECKER BROS. - THE BRECKER BROS. COLLECTION / VOLUME ONE (1975/1981)

BRECKER BROS. - THE BRECKER BROS. COLLECTION / VOLUME TWO (1975/1981)

Se ancora disponibili, vale la pena di cercare entrambi i volumi, perché contengono una selezione accurata ed esaustiva dei brani strumentali sparsi qua e là nei primi sei album: a parte il materiale estratto da Straphangin’ - disco di cui non va scartato nulla - sono particolarmente rimarchevoli Skunk Funk, Sponge (Brecker Brothers), Squids, Funky Sea, Funky Dew (Don’t Stop The Music), le versioni 'live' degli stessi brani tratte da Heavy Metal Be-Bop - incluso per intero - un formidabile blues “rivisitato” (Inside Out), una lussuosa ballad di Michael Brecker (Dream Theme) e quattro super-produzioni fusion (Squish; I Don’t Know Either; Baffled; Tee’d Off) recuperate filtrando il discontinuo Detente. - B.A.

Listening to these performances, I suspect that the influence and impact that the Brecker Brothers had on all sorts of music will finally come into focus. The fact is that any of this material could easily have been recorded yesterday. It is that valid and that fresh. - Michael Cuscuna


BRECKER BROS. - HEAVY METAL BE-BOP (1978)


BRECKER BROS. - STRAPHANGIN(1981) FOREVER YOUNG

Poco tempo dopo la sua genesi, lenta e travagliata, la musica fusion era già ridotta a una parata di fenomeni da baraccone ed emuli di Fausto Papetti. Fortunatamente, alcuni CD eccezionali sovrastano ancora oggi la marea di prodotti mediocri, ricordando a chi non c’era i fasti di quella stagione breve ma influente. Un posto nell’albo d’oro dei capolavori - Eyewitness, Wishful Thinking, YellowJackets, Heavy Weather, Mountain Dance, Still Warm, Elegant Gypsy etc. - spetta di diritto a Straphangin’, gioiello ignorato all’epoca della pubblicazione e tuttora sepolto sotto le macerie degli anni '80. L’album confermava la teoria di Zappa - sempre sia lodato - secondo cui un solista si esprime tanto meglio quanto più valido è il gruppo che lo accompagna. In questo caso, accanto ai due titolari (tromba/tenore) troviamo una super-band riunita apposta per il progetto: Richie Morales, batterista dotato di sprint bruciante ed estrema precisione [poco dopo lo ritroveremo negli Spyro Gyra, con cui rimarrà dal 1985 (Alternating Currents) al 1989 (Point Of View)]; Mark Gray, padrone del Fender Rhodes e artefice di un ottimo assolo di sintetizzatore su Bathsheba; Barry Finnerty (chitarra) - valoroso reduce del live Heavy Metal Be-Bop - che su Spreadeagle esegue una libera traduzione del linguaggio blues; Marcus Miller - profeta dello 'slap', virtuoso stilisticamente agli antipodi rispetto a Jaco Pastorius ma, insieme a questi, massimo riformista del basso elettrico - che con un fulmineo intervento su Not Ethiopia ribadisce d’imperio il suo primato. Le composizioni di Randy Brecker confermano un indiscusso talento di “autore”: Threesome è una geniale melodia scritta l’anno prima per Steve Khan (Evidence); Why Can’t I Be There, cantabile tema che sembra uscito dalla penna di Bob James, si sviluppa su uno straordinario fraseggio del flicorno; solo omonima del classico di Jackie McLean, Jacknife incorona il trombettista erede naturale di Lee Morgan, Charles Tolliver e Kenny Dorham. Memorabile l’introduzione della title-track, una specie di minuetto seicentesco che “evolve” in un portentoso arrangiamento funk. Fino ad allora, l’unico limite dei Brecker Brothers erano i pezzi cantati, non sempre all’altezza della loro classe: Straphangin’ è un disco esclusivamente strumentale, intrinsecamente jazz, votato all’improvvisazione, colmo di assoli stupendi e sospinto da una ritmica infallibile che non indulge mai in beceri esibizionismi. - B.A.


LARRY CARLTON - SLEEPWALK (1981)

LARRY CARLTON - EIGHT TIMES UP (1982)

LARRY CARLTON - FRIENDS (1983)

LARRY CARLTON - ALONE / BUT NEVER ALONE (1986)

LARRY CARLTON / LEE RITENOUR - LARRY & LEE (1995)

CLARK / JACKSON / WAGNON - CONJUNCTION (2001)


BILLY COBHAM - SPECTRUM (1973)

Chi erano quegli uomini malvagi che, per denigrare Billy Cobham, usavano termini come “invadenza”, “ostentazione”, “esibizionismo”? Che fine hanno fatto? Per caso dispongono ancora di una tribuna da cui sparare cazzate? Soprattutto, esistono recapiti dove sia possibile rintracciarli? Ovviamente no, perché se la musica è rimasta, “lor signori” sono spariti, mimetizzandosi come gli ultracorpi di Don Siegel. La verità è che nei garage riconvertiti a palcoscenici intere generazioni si sono misurate con l’impegnativo riff di Red Baron, non appena le stucchevoli nenie dei cantautori o gli inconcludenti schiamazzi heavy-metal venivano a noia. Certo, tra il dire e il fare … ma almeno ci si provava e, oltre al valore intrinseco, Spectrum ha avuto il merito di raffinare i gusti di tanti adolescenti, avvicinandoli al jazz. Reduce dalla personale affermazione con la Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin, per l’esordio da titolare il batterista davisiano mette piatti e tamburi al centro della scena, avvalendosi del contributo di virtuosi tra cui spiccano il ceco Jan Hammer (tastiere) e il compianto Tommy Bolin (chitarra): sfilze di loro assoli si possono apprezzare su Quadrant 4 e Stratus. La frenesia funk di Taurian Matador suscitò l’interesse dei Mark/Almond, che avrebbero convocato Cobham per lo splendido To The Heart - memorabile la sua prestazione su Busy On The Line. In un paio di pezzi - Spectrum, Le Lis - la presenza di Stanley Clarke (contrabbasso) e Joe Farrell (flauto / sax) dona un’elegante sfumatura acustica alle esecuzioni. Inutile soffermarsi sul livello tecnico dei vari arrangiamenti: fanno paura. Album indispensabile per chiunque ami l’arte del ritmo. - B.A.


BILLY COBHAM - CROSSWINDS (1974)

BILLY COBHAM - TOTAL ECLIPSE (1974)

BILLY COBHAM - SHABAZZ (1975)

COBHAM / KHAN / JOHNSON / SCOTT - ALIVEMUTHERFORYA (1978)


MARK COLBY - SERPENTINE FIRE (1978) FOREVER YOUNG

MARK COLBY - ONE GOOD TURN (1979) FOREVER YOUNG

Introdotti dalle memorabili copertine concepite da Paula Scher*, Serpentine Fire e One Good Turn sono capolavori fusion che, per il semplice fatto di recare il marchio Tappan Zee, meritano anche la qualifica di classici, configurando altresì un corpus discografico da non frazionare in capitoli distinti (nel senso che bisogna procurarseli entrambi). La scaletta amalgama in uno stile sofisticato e originale spartiti di varia provenienza: due preziosi inediti di Steve Khan [Rainbow Wings, Macbeth (For Folon)], altrettanti di Bob James (King Tut, Song For My Daughter) - entrambi gli autori sono coinvolti come ospiti di lusso - un brillante arrangiamento di Serpentine Fire degli Earth Wind & Fire (All ‘n All), un’interpretazione in chiave reggae dello standard di Stephen Bishop On And On (Careless), un saggio scat per voce e chitarra del compianto Hiram Bullock (Renegade), una suggestiva ballad dagli echi onirici (Daydreamer), pregevoli lezioni di calligrafia a cura di Gary King (Skat Talk) e Mike Mainieri (Peace Of Mind). Lo squisito impasto tra gli stupendi assoli di Mark Colby (sax tenore / soprano), gli archi e i fiati diretti da Jay Chattaway, la metronomica pulsazione di Steve Gadd - presente in dieci pezzi su dodici - affina lo sfarzoso stile orchestrale reso celebre dalle produzioni CTI e sprigiona quel suono denso e avvolgente che ha contraddistinto il meglio del genere. - B.A.

P.S. - *«Bob James was my first ideal client. He wanted album covers to have a series look but not a specific format. His was the only approval necessary in the creation of these album covers. The Tappan Zee covers were all composed of smallish objects - simple American icons blown up so they were out of scale. The approach was successful on the 12-by-12 inch format, particularly because the albums opened up and the whole 25-inch surface could be used. Most of the covers were photographed by John Paul “Buddy” Endress. The most successful Tappan Zee cover was One On One, for which the matchbook became the entire package.» - Paula Scher (Make It Bigger)


MICHEL COLOMBIER - MICHEL COLOMBIER (1979)

COME TOGETHER - GUITAR TRIBUTE TO THE BEATLES (1993)

COME TOGETHER - GUITAR TRIBUTE TO THE BEATLES VOL. 2 (1995)


CHICK COREA - MY SPANISH HEART (1976) FOREVER YOUNG

Sebbene già impelagato nel letamaio Scientology, nel 1976 Chick Corea concepì e incise uno dei più originali capolavori del fecondo ma effimero evo fusion. Forte di un curriculum che annoverava la partecipazione alla svolta elettrica di Miles Davis (In A Silent Way), lo sviluppo del trio acustico post-evansiano (Now He Sings, Now He Sobs; The Song Of Singing; A.R.C.), l’ingresso nel prestigioso club ECM (Piano Improvisations Vol. 1/2) e il primo tentativo di amalgama tra jazz e rock (Return To Forever), il pianista sciorina lungo un sublime doppio album* la passione già manifestata con classici come La Fiesta (Return To Forever) e Spain (Light As A Feather). Assistito da alcuni fedelissimi [Stanley Clarke (contrabbasso), Steve Gadd (batteria), Gayle Moran (voce, moglie)], da una sezione fiati e da un quartetto d’archi, Corea esplora l’universo musicale flamenco, rivisitandolo con la sensibilità dell’improvvisatore. I sinuosi vocalizzi della Moran adornano le coreografie nuziali di Love Castle e Wind Danse e il solenne adagio latino di My Spanish Heart. Nell’oasi botanica di The Gardens, il violoncello miete le armonie da cui germogliano i magnifici arzigogoli dell’Arriaga Quartet su Day Danse. L’esuberanza ritmica di Night Streets coinvolge Gadd in un serrato dialogo con gli ottoni. Armando’s Rhumba scatena l’estro del virtuoso Jean-Luc Ponty (violino): un memorabile mosaico di “cliché” ispanici scanditi da percussioni, battimani e passi di danza. Le due suite offrono altrettante rassegne di maestria tecnica, ispirazione e arte dell’arrangiamento: a) gli splendidi suoni vintage del sintetizzatore su El Bozo, Part II evocano lo spirito progressive dei colleghi inglesi Kerry Minnear (Gentle Giant) e Dave Stewart (Hatfield And The North; National Health); ß) il celeberrimo duetto pianoforte/batteria su Spanish Fantasy, Part II contribuirà a lanciare il “fenomeno” Steve Gadd. [P.S. - *Una prima edizione digitale ridotta - per motivi di spazio mancava The Sky - fu pubblicata dalla Polydor negli anni Ottanta. Nel 2000 la Verve ha rimediato con una ristampa CD integra e lussuosa.] - B.A.


CHICK COREA - THE CHICK COREA ELEKTRIC BAND (1986)

CHICK COREA - LIGHT YEARS (1987)

LARRY CORYELL - BAREFOOT BOY (1971)

LARRY CORYELL - OFFERING (1972)

LARRY CORYELL - THE REAL GREAT ESCAPE (1973)

LARRY CORYELL - SPACES (1974)

LARRY CORYELL - PLANET END (1975)

LARRY CORYELL / OREGON - THE RESTFUL MIND (1975)

LARRY CORYELL - LARRY CORYELL & THE ELEVENTH HOUSE AT MONTREUX (1978)

LARRY CORYELL - DIFFERENCE (1978)

HANK CRAWFORD - Mr. BLUES PLAYS LADY SOUL (1972)

HANK CRAWFORD - WE GOT A GOOD THING GOING (1972)

HANK CRAWFORD - HELP ME MAKE IT THROUGH THE NIGHT (1972)


HANK CRAWFORD - WILDFLOWER (1973)

Il 1973 segna un momento fecondo e cruciale per la CTI: entrambi incisi a Giugno di quell’anno nello studio di Rudy Van Gelder, oltre a rappresentare i rispettivi manifesti estetici di Hank Crawford e Stanley Turrentine, Wildflower e Don’t Mess With Mister T. definiscono l’idioma che condurrà la fusion ai fasti di fine decennio.
Wildflower - Il sax alto duttile e sanguigno di Hank Crawford è l’unico modello effettivamente ammesso e certificato come “debito stilistico” da David Sanborn. In questo senso, la presenza di Bob James in veste di arrangiatore reclamizzata in copertina è più che un indizio di riforme espressive a venire: per concentrarsi meglio sulla regia, egli cede il seggio delle tastiere al versatile Richard Tee, reclutando altresì gli specialisti Joe Beck (chitarra), Bob Cranshaw (basso), Idris Muhammad (batteria). Due standard moderni si giovano delle sontuose rifiniture strumentali di James cucite addosso agli assoli di Crawford: l’anima latina infusa da Carole King a Corazón (Fantasy) ispira i torridi fraseggi di piano elettrico e sax, mentre le sofisticate armonie di You’ve Got It Bad Girl, capolavoro di Stevie Wonder (Talking Book) appena ripreso anche da Quincy Jones (You’ve Got It Bad Girl), esaltano le trame della sezione fiati e l’incisivo wah-wah della chitarra. Il magistero di Crawford risulta impeccabile anche alle prese col blues (Mr. Blues) e la ballad (Good Morning Heartache). Album classico nel prezioso catalogo di un innovatore. [P.S. - Pubblicato sotto le insegne della Kudu, sussidiaria della CTI.] - B.A.


HANK CRAWFORD - DON’T YOU WORRY ‘BOUT A THING (1974)

EUMIR DEODATO - PRELUDE (1973)

EUMIR DEODATO - DEODATO 2 (1973)

AL DI MEOLA - LAND OF THE MIDNIGHT SUN (1976)


AL DI MEOLA - ELEGANT GYPSY (1977) FOREVER YOUNG

Col secondo disco a proprio nome, Al Di Meola passò dal rango di anonimo gregario per Chick Corea (Where Have I Known You Before; No Mystery; Romantic Warrior) allo status di idolatrato divo fusion. In seguito, egli assaporerà le gioie della fama internazionale e di una carriera appagante, ma questo album rimane l’insuperato modello stilistico del linguaggio musicale che contribuì a definire. Coi suoi assoli fulminei ma raziocinanti, Al somministrava una flebo di adrenalina al genere la cui fine prematura sopraggiungerà a causa del virtuosismo fine a se stesso. In effetti, malgrado la perizia strumentale della band raggiunga livelli stratosferici, essa è sempre al servizio di una coerente idea melodica. Gli arrangiamenti orchestrati insieme a Jan Hammer (tastiere), Anthony Jackson (basso), Steve Gadd (batteria) e Mingo Lewis (percussioni) creano un incessante susseguirsi di sbalzi climatici: le suggestioni sudamericane di Flight Over Rio e Midnight Tango, le seducenti armonie latine di Lady Of Rome, Sister Of Brazil, la policroma rapsodia della splendida Elegant Gyspy Suite. Nel corso della precipitosa fuga di Race With The Devil On Spanish Highway i frenetici fraseggi del leader si alternano a cantabili aperture esaltate dal “sustain” della chitarra elettrica. Il leggendario duetto flamenco con Paco De Lucia - Mediterranean Sundance - consegnerà Di Meola all’eternità, suggerendo altresì la fortunata idea del trio acustico con John McLaughlin (Friday Night In San Francisco). Bella la ragazza della copertina ma … appunto, perché relegarla sullo sfondo? - B.A.


AL DI MEOLA - CASINO (1978)


Dr. STRUT - Dr. STRUT (1979)

La gioia di suonare (bene) ... vi basta? L’esordio dei Dr. Strut, pubblicato sotto le prestigiose insegne Motown, ribadiva brillantemente i fondamenti estetici della dottrina fusion: l’impatto cinetico del rock coniugato al codice espressivo del jazz. Per ottenere un amalgama omogeneo erano necessarie doti tecniche e creatività in egual misura. Reduce dall’esperienza di assistente alle registrazioni di Can’t Buy A Thrill e Countdown To Ecstasy, dunque testimone oculare della storia del Novecento, pochi anni dopo Tim Weston si ritrova leader di una band che nel primo album esibisce il prezioso fregio di un inedito firmato da Walter Becker e Donald Fagen: scritta durante le sofferte sedute di Gaucho, Canadian Star è un’incantevole ballad in cui i suggestivi accordi degli Steely Dan si snodano fino all’elegante cesello della chitarra elettrica. Il sestetto vanta una coesione mirabile, che risalta tanto sui break ritmici di Who Cares e Blow Top quanto sui briosi temi funk di Eddieism, Granite Palace, More Stuff, Chicken Strut. I tempi rallentati di Soul Sermonette e The Look In Your Eyes offrono ampio spazio ai gustosi fraseggi di Tim Weston (chitarre) e David Woodford (sax), mentre i sessanta secondi di No! You Came Here For An Argument condensano il potenziale collettivo in un superbo mini-saggio strumentale, che verrà ripreso e sviluppato nel disco successivo (Struttin’). Un terzo, eccellente capitolo (Soul Surgery) chiuderà la breve esperienza dei Dr. Strut. Tim Weston riapparirà alla testa dei magnifici Wishful Thinking (Wishful Thinking). - B.A.


Dr. STRUT - STRUTTIN’ (1980)

Dr. STRUT - SOUL SURGERY (1982)

JOE FARRELL - MOON GERMS (1972) FOREVER YOUNG


JOE FARRELL - PENNY ARCADE (1973) FOREVER YOUNG

JOE FARRELL - UPON THIS ROCK (1974) FOREVER YOUNG

JOE FARRELL - CANNED FUNK (1975) FOREVER YOUNG

Tra i meriti storici di un gigante come Creed Taylor c’è sicuramente quello di aver concesso ampio spazio a Joe Farrell nel prezioso catalogo della CTI. Forse il fraseggio su Sexy Mama di Laura Nyro (Smile) vi dice qualcosa? Per caso vi è battuto il cuore sulle note di Under The Jamaican Moon di Leah Kunkel (Leah Kunkel)? O magari possedete ancora una copia dello splendido Friends di Chick Corea? In tutti i casi, il sax è quello di Joseph Carl Firrantello - suo vero nome - compianto eroe della fusion più onesta, lucida e coerente. In una discografia di valore omogeneo ed eccelso, Penny Arcade, Upon This Rock e Canned Funk sono tre album che, ancora oggi, non temono confronti su un buon impianto stereo. Condivisa una prima linea stabile col prodigioso Joe Beck alla chitarra, il fiatista la espande a una formazione comprendente Herbie Hancock alle tastiere, il roccioso Herb Bushler al basso elettrico, Jim Madison o Steve Gadd alla batteria, Don Alias o Ray Mantilla alle percussioni, al fine di iniettare nell’organismo jazz i germi ritmici del rock. L’antidoto gioverà alla buona musica in generale, ispirando a sua volta, nei decenni successivi, quartetti straordinari come quelli di Steve Khan (Eyewitness; Modern Times; Casa Loco; Public Access), Bill Bruford (All Heaven Broke Loose; A Part, And Yet Apart; The Sound Of Surprise; Footloose And Fancy Free; Random Acts Of Happiness), John Scofield (Time On My Hands; Meant To Be; What We Do). Forte di un magistero tecnico ed espressivo affinato nei ranghi della Thad Jones/Mel Lewis Orchestra, l’italo-americano contribuì alla stesura del nuovo linguaggio col piglio dell’improvvisatore puro: sanguigno al tenore (Animal; Geo Blue; Spoken Silence), funky al soprano (Too High; Weathervane), lirico e suadente al flauto (Cloud Cream; I Won’t Be Back; Suite Martinique). Farrell trovò in Beck un interlocutore ideale: gli assoli incrociati sassofono/chitarra affiorano di continuo dall’amalgama sonoro, senza mai perdere aderenza rispetto agli arrangiamenti. I brani che intitolano ciascun album sono altrettanti capolavori: Penny Arcade parte a razzo con un tema di sapore progressive smembrato dal rullante di Gadd e poi liberamente ricomposto da Beck e Farrell lungo gli accordi; il placido beat che introduce Upon This Rock si ridesta sulle note distorte di Beck, per poi venir inghiottito dall’ossessivo saliscendi armonico su cui imperversano i solisti; la cavernosa voce che recita lo slogan tra un inciso e l’altro conferisce a Canned Funk un’originale atmosfera “afro”, esaltata da brucianti variazioni metriche. Hurricane Jane esibisce i primi formidabili exploit di Gadd, mentre Seven Seas è un twist-blues stravolto dagli interventi di Farrell e Beck. Le stupende foto delle copertine sono di Pete Turner. Un episodio extra-musicale dona ulteriore lustro al ricordo di Joe Farrell che, invitato da Chick Corea a entrare nella chiavica pseudo-religiosa di L. Ron Hubbard, rispose: «... don’t lay that Scientology shit on me ...». L’uomo se n’è andato a soli 49 anni ... only the good die young. - B.A.


JOE FARRELL / GEORGE BENSON - BENSON & FARRELL (1976)


UMBERTO FIORENTINO - INSIDE COLORS (1988)

Giova ricordarlo: negli anni Ottanta, il jazz italiano fornì una robusta profilassi alle chiappe tenerelle di tanti ascoltatori e collezionisti che, altrimenti, sarebbero state profanate senza scrupoli dai “critici”. L’affermazione appare indecifrabile? Diciamo meglio: un’audace combinazione di indipendenza, buongusto e passaparola consentì al pubblico di mantenere intatto il proprio candore auditivo-intellettuale e di ignorare le fregnacce scritte dai pretesi esperti della “stampa specializzata” (dossier I / II / III). Introdotto alla platea degli appassionati dai primi due album dei Lingomania (Riverberi, Grrr ... Expanders) - storica band fusion che, insieme al Perigeo, ha promosso l’immagine del nostro paese nel mondo - Umberto Fiorentino approda all’esordio personale con un disco che rispecchia una stagione (suoni) ma è ancora moderno (contenuti). Col versatile Stefano Sastro fisso alle tastiere, il prezioso sax tenore di Stefano D’Anna su tre pezzi e alcuni rinomati specialisti - Luca Pirozzi / Enzo Pietropaoli (basso elettrico), Roberto Gatto / Alberto D’Anna (batteria) - che si alternano nelle rispettive mansioni, gli arrangiamenti mescolano le algide sonorità dell’epoca a fraseggi di indiscusso spessore musicale. Black Panther, Lost In A Mirror, Zone Di Confine, Half July: la funzionalità espressiva dei temi prevale sulla loro sostanza melodica, il che non va a detrimento del complessivo esito artistico. L’innegabile sfoggio di tecnica che ricorre su ogni brano non è superfluo e, in un eventuale raffronto coi maestri americani, serve proprio a scansare qualsiasi dubbio dettato dal pregiudizio esterofilo. In alcuni passaggi si colgono echi del periodo Gramavision di John Scofield, senza tuttavia avvertire mai nulla di derivativo, anche perché lo stile di Fiorentino si sottrae a similitudini e classificazioni. Questione di gusti: la nostra pagina preferita è Gum To Gum, una strepitosa fuga in quartetto che chiude l’album lanciando a briglia sciolta Fiorentino, S. D’Anna, Pietropaoli e Gatto. Le interessanti note di copertina recano la firma di Gianfranco Salvatore: esponente sui generis della sputtanatissima categoria degli “addetti ai lavori”, egli è un sincero cultore e un attento studioso del fenomeno che amalgamò improvvisazione ed elettricità. - B.A.


UMBERTO FIORENTINO - ULISSE (1995)

FOURPLAY - FOURPLAY (1991)

FOURPLAY - BETWEEN THE SHEETS (1993)

FOURPLAY - ELIXIR (1995)

FOURPLAY - 4 (1998)

FOURPLAY - YES, PLEASE! (2000)

FOURPLAY - HEARTFELT (2002)

FOURPLAY - JOURNEY (2004)

FOURPLAY - X (2006)

FOURPLAY - ENERGY (2008)

ERIC GALE - FORECAST (1973)

ERIC GALE - NEGRIL (1975)

ERIC GALE - GINSENG WOMAN (1977)

ERIC GALE - MULTIPLICATION (1978))

ERIC GALE - PART OF YOU (1979)

ERIC GALE - TOUCH OF SILK (1980)

ERIC GALE - BLUE HORIZON (1981)

ERIC GALE - IN THE SHADOW OF A TREE (1982)

ERIC GALE - ISLAND BREEZE (1983)

ROBERTO GATTO featuring MICHAEL BRECKER - NOTES (1986)


ROBERTO GATTO featuring JOHN SCOFIELD - ASK (1987)

È bello gridare “Forza Italia!” senza alcun imbarazzo. Può accadere quando si scopre una ghiottoneria d.o.c. come Ask e se ne assapora l’immarcescibile freschezza vent’anni dopo la data di registrazione. Con la fusion ormai matura e quasi prossima al degrado, un gruppo di talenti nostrani riesce comunque a incidere album belli ed esportabili (!). Assistiti dagli amici Massimo Bottini e Battista Lena, gli ex-membri del Trio di Roma - Roberto Gatto, Danilo Rea, Enzo Pietropaoli - si ritrovano in studio per un proficuo meeting con “Sua Altezza” John Scofield: il fuoriclasse di Dayton proprio allora si imponeva come unico concorrente credibile di Pat Metheny, esibendo una tecnica e una fantasia pari solo alla duttilità dello stile. L’introduttiva Ask diffonde echi davisiani (Star People; Decoy; You’re Under Arrest) amplificati dalla semi-acustica di Scofield, che procede sinuosa sopra un tempo lento e irto di ostacoli ritmici. Su There Will Never Be Another You va in scena un sensazionale duetto chitarra/batteria, degno di analoghi e più celebri summit [Piscean Dance (Ralph Towner, John Christensen); Unshielded Desire (John Abercrombie, Jack DeJohnette); Phenomenon: Compulsion (John McLaughlin, Billy Cobham)]. Voto: “10”. Concepita apposta per esaltare il retroterra R&B di Scofield, Blue Christmas reca la firma di Pietropaoli*, mentre la seducente progressione armonica di Of What si deve a Bottini. Un encomio solenne alla Duck che, oltre a questo Ask e all’ottimo Orange Park*, ha pubblicato impeccabili ristampe CD di Enrico Rava, Umberto Fiorentino, Maurizio Giammarco e Lingomania. - B.A.


DON GROLNICK featuring MICHAEL BRECKER - HEARTS AND NUMBERS (1985) FOREVER YOUNG

Nel suo libro Storia della Fusion, Vincenzo Martorella dedica un intero, appassionante capitolo a Hearts And Numbers (al brano Pointing At The Moon in particolare), annoverando l’album tra i capolavori fondativi del nuovo genere insieme a Heavy Weather dei Weather Report, Mirage à Trois degli YellowJackets, Modern Times degli Steps Ahead. Per l’approfondimento dei dettagli, dunque, vi rimandiamo alla lettura di quel volume indispensabile. D’altro canto, la vicenda della musica fusion è così complessa da rendere egualmente legittimi i diversi pareri relativi a genesi ed evoluzione del fenomeno. Qui ci limitiamo a segnalare un disco di cui, fino al 2003, neanche noi sapevamo nulla. Pubblicato su vinile prima dalla Hip Pocket, poi dalla veraBra, infine riedito su CD dalla Art of Life, l’esordio individuale di Don Grolnick vanta in copertina una prestigiosa cointestazione a Michael Brecker, all’epoca al culmine della sua eccezionale carriera. Sorretto da una doppia band di fuoriclasse - Steve Jordan e/o Peter Erskine (batteria), Will Lee o Marcus Miller (basso elettrico), Jeff Mironov o Hiram Bullock (chitarre) - il titolare esibisce squisite doti di compositore che lo accostano al talento di Randy Brecker, anch’egli penna finissima e carattere schivo. Le varie fasi in cui si divide l’introduttiva Pointing At The Moon alternano una ricorrente andatura in levare scandita da Jordan a un rilascio melodico condotto da Mironov, sui quali Brecker deve continuamente riposizionarsi: il risultato è un pezzo strumentale dal fascino indefinibile, assolutamente sui generis, che mantiene saldo il legame col jazz grazie allo splendido assolo di sax. La cifra distintiva di Pools è data dal contrasto tra il cantabile tema esposto da Brecker e l’elegante fraseggio di Grolnick, che si fa apprezzare anche per lo stupendo timbro perlato del piano acustico. The Four Sleepers è un ingegnoso gioco di atmosfere che chiude il cerchio nell’incantevole motivo morriconiano decorato dallo “slap” di Miller e dall’improvvisazione di Brecker. I due batteristi agiscono in coppia sulle stoccate ritmiche di Human Bites, lacerando la trama luminescente intessuta da Bullock a beneficio dell’impetuoso intervento di Brecker. C’è ancora spazio per l’ipnotico battito di Act Natural, scosso dalle imprevedibili fibrillazioni del tenore. Davvero un gioiello per esperti, collezionisti e appassionati. - B.A.

Consulenza: Massimo Magni / Vincenzo Martorella


DAVE GRUSIN - DISCOVERED AGAIN! (1976)

DAVE GRUSIN - ONE OF A KIND (1977)


DAVE GRUSIN - MOUNTAIN DANCE (1980) FOREVER YOUNG

Album splendido, Mountain Dance è anche un documento utile per operare una corretta ricostruzione storica di quel periodo. Mentre i ritardati punk sfasciavano gli strumenti sui palchi di Londra, nel grottesco tentativo di imitare gli Who, e al CBGB di New York una sedicente “intellighenzia” rock squadrava i ritmi impancandosi a guida delle nuove leve, altrove uno sparuto drappello di artisti snobbati dai media proponeva una “terza via” a tutela della musica: classe, sentimento, cura del dettaglio, ripudio del banale. Uno dei personaggi più autorevoli di quella minoranza illuminata era Dave Grusin, apprezzato autore di colonne sonore (Heaven Can Wait; Tootsie; Falling In Love; The Fabulous Baker Boys etc.), scaltro discografico (GRP) ed eccellente pianista. Assemblata una band forte di alcuni session-men in forma smagliante (Marcus Miller, Harvey Mason etc.), disposta una front-line a tre tastiere (il titolare più Ed Walsh e Ian Underwood ai sintetizzatori), Grusin si imbarca in un progetto ambizioso: registrare in uno studio digitale, in diretta e senza sovraincisioni. L’esecuzione e il missaggio effettuati in tempo reale richiedevano dosi supplementari di cuore e tecnica, che i convenuti certo non lesinarono: gli interventi del leader sono contraddistinti da un fraseggio sobrio e agilissimo; col suo basso, Miller puntella gli arrangiamenti sfoderando un’incredibile campionario di note stirate e schiocchi 'slap'; finalmente restituito alla batteria, Mason si conferma stilista dal tocco raffinato e fantasioso. L’iniziale Rag Bag è uno dei cinque classici fusion di sempre: gli accordi percossi da Grusin espongono il tema, per poi carambolare su un sensazionale assolo di Jeff Mironov, sublime inno alla chitarra elettrica. Scritta da tale Jeffrey Williams, Friends And Strangers è una leggiadra melodia che sembra uscita dalla penna di Bob James. City Lights, Captain Caribé e Mountain Dance proiettano nell’iperuranio il connubio tra jazz e pop. Qualità audio superiore. - B.A.


DAVE GRUSIN - OUT OF THE SHADOWS (1982)

DAVE GRUSIN - NIGHTLINES (1983)

DAVE GRUSIN / LEE RITENOUR - HARLEQUIN (1985)


HERBIE HANCOCK / HEAD HUNTERS - HEAD HUNTERS (1973)

HERBIE HANCOCK / HEAD HUNTERS - THRUST (1975)

1973 … le cose stavano cambiando … una confraternita di apostoli ispirati (Chick Corea, Joe Zawinul, Wayne Shorter, John McLaughlin, Tony Williams, Jack DeJohnette, Billy Cobham etc.) predicava in giro per il mondo la buona novella elettrica di Miles Davis (In A Silent Way, Bitches Brew, Jack Johnson, On The Corner) … tra costoro, Herbie Hancock si distingueva per una peculiare caratura di spessore tecnico e intuito creativo. L’impressionante band assemblata per il progetto passerà alla storia, schierando accanto al leader Bennie Maupin [sax (tenore, soprano), clarinetto basso, flauto], Paul Jackson (basso elettrico), Bill Summers (percussioni), Harvey Mason (batteria), quest’ultimo sostituito nel secondo disco da Mike Clark con esiti, se possibile, ancora migliori. La rivoluzione condotta da Davis con l’uso dei riff attorno a cui far ruotare arrangiamenti e fraseggi per gli HeadHunters diventa prassi: Chameleon e Watermelon Man (ripresa dopo l’originale versione acustica di Hancock che apriva Takin’ Off, suo esordio Blue Note) chiariscono subito il concetto, squadernando l’irresistibile “guilty pleasure” di improvvisare sopra ritmi inequivocabilmente derivati da rock e soul … la vivace scansione “caraibica” di Sly e la solenne rullata “militare” di Vein Melter aggiungono ulteriori diversivi metrici. Con l’arrivo di Clark (a fine decennio lo ritroveremo nei Brand X) il groove* si articola in complesse ramificazioni dispari - Palm Grease, Actual Proof - su cui Hancock dilaga con piano elettrico e sintetizzatori, braccato dai contrappunti di Maupin. La sofisticata melodia di Butterfly espone in vetrina la penna del compositore. Probabilmente concepita in occasione dell’ingaggio del nuovo batterista, Spank-A-Lee espande l’introduttiva struttura in trio a una spettacolare fuga funk: illuminanti le note scritte da Clark per la ristampa CD, in cui egli rievoca vividamente l’entusiasmo di quei giorni e l’incontenibile estro di quelle session. I raffinati cultori di questa musica troveranno l’etichetta di riferimento nella preziosa CTI di Creed Taylor. (P.S. - *Stronzissima espressione coniata dalla “stampa specializzata” di cui nessuno conosce l’esatto significato, semplicemente perché non c’è.) - B.A.


BOB JAMES - ONE (1974)

BOB JAMES - TWO (1974)

BOB JAMES - THREE (1976)

BOB JAMES - BJ4 (1977)

BOB JAMES - HEADS (1977)

BOB JAMES - TOUCHDOWN (1978)

BOB JAMES - LUCKY SEVEN (1979)

BOB JAMES - H (1980)

BOB JAMES - SIGN OF THE TIMES (1981)

BOB JAMES - HANDS DOWN (1982)

BOB JAMES - FOXIE (1983)

BOB JAMES - 12 (1984)

BOB JAMES - THE SWAN (1984)


BOB JAMES & EARL KLUGH - ONE ON ONE (1979) FOREVER YOUNG

BOB JAMES & EARL KLUGH - TWO OF A KIND (1982) FOREVER YOUNG

La “critica” ha sempre snobbato Bob James, imputandogli un supposto tradimento di non-si-sa-cosa. Con rispetto parlando, si tratta dell’ennesima sciocchezza commessa da persone ormai irrimediabilmente screditate. Scoperto nei primi anni Sessanta da Quincy Jones, il pianista è a tutti gli effetti un valente improvvisatore, come provano i dischi in trio incisi allora. Che poi, nel decennio successivo, egli abbia intuito le enormi possibilità espressive derivanti dalla mescolanza tra generi, è un’ulteriore prova della sua sagacia artistica. Dopo un pugno di album (Heads; Touchdown; Lucky Seven) che contribuirono a definire lo standard di eccellenza per il nuovo genere, Bob si allea con Earl Klugh, chitarrista fusion dedito esclusivamente allo strumento classico: il gusto per la melodia semplice ma ispirata, l’indiscussa abilità tecnica e una miracolosa simbiosi intellettuale collocano la coppia nell’èlite dello “yin e yang” (Duke Ellington e Billy Strayhorn, Al Cohn e Zoot Sims, Dave Brubeck e Paul Desmond, Art Farmer e Benny Golson, Joe Henderson e Kenny Dorham, Joe Zawinul e Wayne Shorter, Ralph Towner e John Abercrombie, Michael e Randy Brecker). L’apparente tenerezza dei temi nasconde in realtà una straordinaria consistenza armonica che affiora al momento decisivo, quando iniziano a susseguirsi gli assoli incrociati. L’amalgama tra il timbro perlato del piano Fender e il suono duttile delle corde di nylon crea un’atmosfera ovattata ma carica di sensualità, cui la stronzissima qualifica di “smooth jazz” non rende giustizia. Gli “accompagnatori” - Harvey Mason (batteria), Gary King (basso) - garantiscono un sostegno ritmico improntato a discrezione ed eleganza, contribuendo a definire uno stile che rimarrà inimitabile. I due CD si equivalgono (nel 1992 ne seguirà un terzo, Cool, altrettanto bello), i brani sono tutti stupendi ed è appena il caso di segnalarne qualcuno, secondo un personalissimo criterio di scelta: Love Lips, I’ll Never See You Smile Again, Wes. Entrambi caldamente raccomandati a chi ama la buona musica, senza “se” e senza “ma”. [P.S. - One On One ha vinto il Grammy nel 1980.] - B.A.


BOB JAMES & DAVID SANBORN - DOUBLE VISION (1986)

BOB JAMES & EARL KLUGH - COOL (1992)

BOB JAMES & DAVID SANBORN - QUARTETTE HUMAINE (2013)

QUINCY JONES - GULA MATARI (1970)

QUINCY JONES - SMACKWATER JACK (1971)

QUINCY JONES - YOU’VE GOT IT BAD GIRL (1973)

QUINCY JONES - BODY HEAT (1974)

QUINCY JONES - MELLOW MADNESS (1975)

QUINCY JONES - SOUNDS ... AND STUFF LIKE THAT!! (1978)

QUINCY JONES - THE DUDE (1981)


STEVE KHAN - TIGHTROPE (1977)

STEVE KHAN - THE BLUE MAN (1978) FOREVER YOUNG

STEVE KHAN - ARROWS (1979)

La ricetta della musica fusion venne preparata accostando sapientemente rock, Motown e Blue Note. Il fragile equilibrio tra ingredienti si deteriorerà presto in un pappone insipido, ma alcuni dischi incisi in quella stagione - su tutti, la trilogia CBS di Steve Khan - conservano ancora oggi una freschezza inalterata.
Tightrope - Prodotto da Bob James con la benedizione di Bruce Lundvall, l’esordio di Khan nasce sotto i migliori auspici: Steve Gadd (batteria), Will Lee (basso elettrico), Don Grolnick (tastiere), David Sanborn (sax alto) e i Brecker Brothers [(Randy (tromba), Michael (sax tenore)] compongono il gruppo stabile in grado di assicurare un altissimo livello formale agli arrangiamenti. Uno standard jazz (Soft Summer Breeze), un classico di Gamble & Huff (Darlin’ Darlin’ Baby), un gustoso ibrido “dance” (Some Punk Funk), una divertente invenzione di Randy Brecker (The Big Ones) e qualche pezzo che fa la differenza: tracciata dal soprano (Sanborn), la scia melodica di Star Chamber si dissolve sul riff elettrico di Steve, che poi stacca la spina per impugnare una David Russell Young acustica; con il tempo singhiozzante impostato da Gadd e un’icastica sequenza di note, Tightrope è l’immaginaria colonna sonora di un acrobata che ad ogni passo rischia di cadere dalla fune; le ombre di Where Shadows Meet assistono alla scena danzando in preda a violenti spasmi ritmici.
The Blue Man - Nel secondo album, la personale visione stilistica di Khan si delinea con maggiore chiarezza: le atmosfere si fanno cupe (Daily Valley), frenetiche (Daily Bulls), mancano le cover e l’unico pezzo non “originale” è ancora di Randy Brecker - The Little Ones - versione simmetrica e ingegnosa del contributo precedente. Una sintonia quasi telepatica armonizza la voce tagliente di Sanborn, quella morbida di Randy e le raffiche “modali” di Michael, creando un efficace contrasto con il suono turgido della Telecaster. Tra una vampata funk (Some Down Time) e un rabbioso duello chitarra/sax (An Eye Over Autumn), Don Grolnick disegna col sintetizzatore la sagoma di un “omino triste” che si aggira placidamente tra gli acquerelli di Folon (The Blue Man).
Arrows - Arrows chiude in bellezza il periodo “mondano” di Steve Khan, con una manciata di eleganti variazioni sul tema: l’impalpabile “mood indigo” di Calling si impiglia nella fitta rete tesa dai solisti (Khan/Sanborn); due note sollecitate insistentemente con la leva del vibrato introducono la prima parte di City Suite (Pt. I: City Monsters / Pt. II: Dream City), mentre la sezione fiati sfreccia a zig-zag spianando la strada alle fughe strumentali (M.Brecker/Khan); uno spettacolare saggio tecnico di Gadd ricorda le prove offerte dal virtuoso con Ben Sidran (The Cat And The Hat), Steely Dan (Aja) e Chick Corea (My Spanish Heart; Friends). Negli anni a venire Khan confermerà la sua stoffa di artista-intellettuale, pubblicando indiscussi capolavori come Evidence e Eyewitness, partecipando alle mitiche sedute di Gaucho, firmando apprezzati testi di teoria (Pentatonic Khancepts; Contemporary Chord Khancepts) e trascrizioni di assoli storici (The Wes Montgomery Guitar Folio; Pat Martino - The Early Years). - B.A.


STEVE KHAN - EVIDENCE (1980) FOREVER YOUNG


STEVE KHAN - EYEWITNESS (1981) FOREVER YOUNG

STEVE KHAN - MODERN TIMES (BLADES) (1982) FOREVER YOUNG

STEVE KHAN - CASA LOCO (1983) FOREVER YOUNG

Steve KhanL’ennesima dimostrazione di integrità artistica da parte di Steve Khan. Di fronte ai primi segnali di stagnazione del fenomeno fusion, peraltro emersi molto presto, Steve non esitò un attimo a percorrere nuove strade, musicalmente più ardite, anche se meno redditizie in termini di consenso. All’uopo, egli organizza una compatta, insolita squadra finalizzata a creare un fitto tappeto ritmico per le sinuose evoluzioni della sua chitarra elettrica: Steve Jordan alla batteria - un eccezionale talento in gran parte dissipato - l’ex-percussionista dei Weather Report, Manolo Badrena, e l’incredibile bassista Anthony Jackson, conosciuto durante le sedute di registrazione di Gaucho.
Eyewitness - Per stessa ammissione del chitarrista, durante le prime prove del quartetto nessuno sapeva cosa stesse facendo davvero (… I am still not certain what to call what we did …) … jazz? rock? ibrido? alcune supposte affinità col nuovo corso intrapreso dai King Crimson (Discipline) o con lo stile calypso-spaziale dei Police hanno lo stesso valore di un qualsiasi suono captato casualmente alla radio di un bar o a passeggio col cane. In questi arrangiamenti la stella polare è ancora l’improvvisazione, affidata agli imprevedibili fraseggi di Khan e alla straordinaria intesa in seno alla band. Gli splendidi giri di basso scanditi su Where’s Mumphrey? e Guy Lafleur impostano l’atmosfera, agevolando poi un seducente amalgama di pulsazioni (geo)metriche ed enunciati melodici. Su Dr. Slump, ballad notturna di raro fascino, il timbro paffuto della 335 lascia il posto alla sonorità liquida e nasale della Stratocaster col tremolo. Auxiliary Police e Eyewitness esibiscono, rispettivamente, il momento più dinamico e quello più disteso della scaletta di un meraviglioso classico del jazz moderno.
Modern Times (Blades) - Il ridotto, particolare corredo strumentale del combo appariva ideale per le performance dal vivo: in vista della tournée giapponese immediatamente successiva alla pubblicazione di Eyewitness, Khan firma tre nuove pagine da interpretare durante i concerti (Blades, The Blue Shadow, Penguin Village), a cui fu aggiunta Modern Times, sagra dell’interplay dapprima destinata a fare da title-track (a causa di un’inopportuna omonimia col coevo Modern Times degli Steps Ahead, il titolo del Long Playing fu cambiato in Blades).
Casa Loco - Con un organico ormai affiatato dalla consuetudine biennale, Khan mette a fuoco influenze e suggestioni (effettive o presunte) del progetto: l’impiego degli estemporanei vocalizzi di Badrena dona un tocco di spiccata originalità agli arrangiamenti, che talora diffondono ammalianti echi esotici (Uncle Roy, Some Sharks), talaltra virano verso un’ansiogena frenesia millenarista (The Breakaway, The Suitcase). Penetration è un sofisticato adattamento del singolo surf tratto dal repertorio dei Pyramids (vale la pena cercare in rete lo spassoso video del 1964). Su Casa Loco va in scena lo spettacolare assolo di Jordan fatto di rullate telluriche, infarti dispari e contraccolpi claudicanti che, anche dopo molti anni, segna un vertice della letteratura percussiva. La stupenda ristampa della BGO preserva su CD una preziosa trilogia discografica che, altrimenti, avrebbe rischiato l’oblio nell’incorporeo limbo digitale. - B.A.


STEVE KHAN - PUBLIC ACCESS (1990)

STEVE KHAN - CROSSINGS (1994)

STEVE KHAN - THE SUITCASE / LIVE IN KÖLN ‘94 (1994)

STEVE KHAN - PARTING SHOT (2011)

EARL KLUGH - EARL KLUGH (1976)

EARL KLUGH - LIVING INSIDE YOUR LOVE (1976)

EARL KLUGH - FINGER PAINTINGS (1977)

EARL KLUGH - MAGIC IN YOUR EYES (1978)

EARL KLUGH - HEART STRING (1979)


EARL KLUGH - DREAM COME TRUE (1980)

EARL KLUGH - CRAZY FOR YOU (1981)

EARL KLUGH - LOW RIDE (1983)

Anche a causa di alcuni titoli ingenui e fuorvianti - Music For Lovers, Late Night Guitar etc. - nella vulgata comune Earl Klugh è considerato una specie di Fausto Papetti delle 6 corde. Si tratta di un’opinione sballata perché, pur sedotto dalla melodia e, financo, dalla cantabilità dei temi, Earl è un jazz-man con gli attributi. Dopo il doppio* exploit planetario di Living Inside Your Love / Livin’ Inside Your Love, col superbo Heart String Klugh assurge al rango di fuoriclasse. È a quel punto che, quasi per inerzia, gli artisti ispirati riescono a produrre serie ininterrotte di capolavori. L’eccellente ristampa 2x3 della BGO consegna ai posteri un trittico davvero pregevole.
Dream Come True - Il biglietto da visita di If It’s In Your Heart (It’s In Your Smile) ci ricorda uno stile che ha contraddistinto la fusion migliore e che va assolutamente salvaguardato. La rispettive presenze di Marcus Miller e Greg Phillinganes galvanizzano gli arrangiamenti di Amazon, acrobatica evoluzione lungo le anse del fiume sudamericano, e di Spellbound, con uno spettacolare inciso ritmico su cui svetta il fraseggio della chitarra. I romantici echi uditi sullo stupendo One On One ritornano con Dream Come True e Message To Michael.
Crazy For You - La simpatica copertina - copiatissima da Bittersweet di Lamont Dozier - ha in serbo ulteriori effluvi di leggiadria ed eleganza che sprigionano il passo felpato di I’m Ready For Your Love e Crazy For You, lo sfarzo orchestrale di The Rainmaker, l’irresistibile groove di Twinkle (impressionante lo slap di Louis Johnson).
Low Ride - Con i fetidi anni Ottanta ormai a pieno regime, Earl Klugh non si scompone più di tanto, limitandosi a rendere appena più danzabili alcuni momenti - Back In Central Park, (If You Want To) Be My Love, Low Ride - lasciando comunque intatta la possibilità di improvvisare: se allora in discoteca si fosse ballata questa musica invece che Der Kommissar o Gioca Jouer, forse l’Italia avrebbe scongiurato l’avvento di cinghialoni, picconatori, caimani, escort ed elefantini. L’atmosfera latina di Night Drive esalta l’inconfondibile tocco acustico di Earl in un assolo meraviglioso. [P.S. - *Living Inside Your Love, splendido “instant classic” del secondo album, firmato da Earl Klugh con Dave Grusin, piacque a George Benson, che lo riprese in pompa magna registrandolo insieme al collega in un doppio Long Playing quasi omonimo (Livin’ Inside Your Love) e facendone un successo mondiale.] - B.A.


EARL KLUGH - WISHFUL THINKING (1984)

EARL KLUGH - NIGHTSONGS (1984)

EARL KLUGH - SODA FOUNTAIN SHUFFLE (1990)


NEIL LARSEN - JUNGLE FEVER (1978)

NEIL LARSEN - HIGH GEAR (1979)

Strenuo difensore dell’organo elettrico quando lo strumento era sospeso nell’oblio e ben prima che il balordo trend “acid” ne rilanciasse le qualità espressive, Neil Larsen ha inciso un paio di classici fusion godibili ancora oggi. Prodotti dal guru Tommy LiPuma, entrambi gli album vantano la presenza di Michael Brecker (sax tenore) e del fedele Buzzy Feiten (chitarra), oltre che di due diverse, eleganti sezioni ritmiche: Willie Weeks (basso) e Andy Newmark (batteria) per Jungle Fever, Abraham Laboriel (basso) e Steve Gadd (batteria) su High Gear. L’intesa tra i tandem propulsivi e i solisti principali genera un’avvincente sintesi stilistica in cui si colgono echi di Blue Note, CTI e Sud-America. I suoni di Hammond (Larsen) e Stratocaster (Feiten) dilagano sui raffinati arrangiamenti di Sudden Samba, This Time Tomorrow e Futurama, quest’ultima da custodire in un’ideale crestomazia del “genere” accanto a Rag Bag di Dave Grusin, Double Margo dei Wishful Thinking, We’re All Alone di Bob James, Airborne di David Spinozza, Rush Hour di David Sanborn, Sittin’ In It degli YellowJackets. In veste di ospite di lusso, Brecker si esibisce senza risparmio su Emerald City, Demonette, Nile Crescent e su una brillante versione dell’immortale Last Tango In Paris di Gato Barbieri. - B.A.


HUBERT LAWS - THE LAWS OF JAZZ 1964)

HUBERT LAWS - FLUTE BY-LAWS (1966)

HUBERT LAWS - CRYING SONG (1969)

HUBERT LAWS - AFRO-CLASSIC (1970)

HUBERT LAWS - THE RITE OF SPRING (1971)

HUBERT LAWS - WILD FLOWER (1972)

HUBERT LAWS - MORNING STAR (1972)

HUBERT LAWS - IN THE BEGINNING (1974)

RAMSEY LEWIS - MOTHER NATURE’S SON (1968)

RAMSEY LEWIS - MAIDEN VOYAGE (1968)

RAMSEY LEWIS - BACK TO THE ROOTS (1971)

RAMSEY LEWIS - THE GROOVER (1972)

RAMSEY LEWIS - FUNKY SERENITY (1973)

RAMSEY LEWIS - SOLAR WIND (1974)


RAMSEY LEWIS - SUN GODDESS (1974)

Cosa inventarsi per divulgare una forma d’arte autentica senza svilirne l’integrità? Questo, in sostanza, il rebus (apparentemente insolubile) che scatenò una vera e propria rivoluzione musicale. I dotti, molteplici, discordi pareri in merito attribuiscono la genesi dell’idioma fusion a precise fasi stilistiche (il soul-jazz di Cannonball Adderley, la svolta elettrica di Miles Davis) o ai dettagli di album influenti (le 24 battute di The Sidewinder, i riff ipnotici di In A Silent Way, le innovazioni timbriche di Heavy Weather*). Non siamo in grado di pronunciarci con nettezza al riguardo, ma è certo che la temeraria formula espressiva concepita da Creed Taylor (sfarzo orchestrale, melodie cantabili, solisti eccelsi) fu determinante per la stesura del nuovo lessico. A partire dalle stesse coordinate della CTI, due ispirati capiscuola - Bob James e Ramsey Lewis - elaboravano una sintesi analoga: mantenendo a livelli altissimi l’indispensabile componente dell’improvvisazione, essi attingono a un repertorio rock e soul così da sedurre l’ascoltatore più restio che, “ingannato” dal lussuoso arrangiamento di un ritornello familiare, introietta quasi senza accorgersene un assolo dopo l’altro. Titolare di una pregiata discografia in cui spiccava Mother’s Nature Son, visionaria parafrasi in tempo reale (1968) del “Doppio Bianco” dei Beatles, con Sun Goddess Ramsey Lewis definisce ulteriormente il concetto di contaminazione tra generi. I cori degli Earth, Wind & Fire - prossimi a registrare That’s The Way Of The World - espongono l’amabile tema introduttivo, rincorsi dal sax tenore di Don Myrick e dallo stesso Lewis che imperversa al piano elettrico (capito il trucchetto?). La sontuosa cover strumentale di Living For The City trasforma lo scorcio di vita ai margini ritratto da Stevie Wonder (Innervisions) in una drammatica sonata funk. L’affiatato tandem ritmico - Cleveland Eaton (basso elettrico, contrabbasso), Morris Jennings (batteria, percussioni) - che completa il trio stabile del leader si esalta sulle sonorità spaziali di Tambura, tra gli echi africani di Jungle Strut (Obirin Aiye Mirelle Koso) e nelle sorprendenti suggestioni progressive di Gemini Rising. L’irresistibile leggiadria di Love Song illustra bene il crossover tra spensieratezza pop e fraseggi squisiti che, in seguito, farà la fortuna di Bob James. [P.S. - *A pagina 17 della sua fondamentale Storia della Fusion, Vincenzo Martorella individua proprio nel capolavoro dei Weather Report il manifesto di un’inedita corrente estetica.] - B.A.


RAMSEY LEWIS - SÃLONGO (1976)

RAMSEY LEWIS - LOVE NOTES (1977)

RAMSEY LEWIS - TEQUILA MOCKINGBIRD (1977)

RAMSEY LEWIS - LEGACY (1978)

RAMSEY LEWIS - RAMSEY (1979)

RAMSEY LEWIS - ROUTES (1980)

RAMSEY LEWIS - THREE PIECE SUITE (1981)

RAMSEY LEWIS - CHANCE ENCOUNTER (1982)

LINGOMANIA - RIVERBERI (1986)

LINGOMANIA - GRRR ... EXPANDERS (1987)

LINGOMANIA - CAMMINANDO (1988)

WILBERT LONGMIRE - SUNNY SIDE UP (1978)

WILBERT LONGMIRE - CHAMPAGNE (1979)

WILBERT LONGMIRE - WITH ALL MY LOVE (1980)

MAHAVISHNU ORCHESTRA - THE INNER MOUNTING FLAME (1971)

MAHAVISHNU ORCHESTRA - BIRDS OF FIRE (1973)

STEVE MARCUS - TOMORROW NEVER KNOWS (1968)

STEVE MARCUS - COUNT’S ROCK BAND (1968)

STEVE MARCUS - THE LORD’S PRAYER (1969)

STEVE MARCUS - SOMETIME OTHER THAN NOW (1976)


DAVID MATTHEWS - GRAND CROSS (1981)

Forte di un curriculum che lo vide collaborare con Nina Simone (Baltimore) e Paul Simon (Still Crazy After All These Years), fine tastierista e aspirante lupo di mare, con lo stile, i ritmi e financo l’aspetto, David Matthews confessa una sincera passione per climi caldi e luoghi esotici, filtrata però attraverso la cura meticolosa degli arrangiamenti. Su questo spettacolare album fusion, il registro degli ospiti annovera, per ciascuno strumento, l’aristocrazia del genere: accanto al leader, tra gli altri, sfilano Marcus Miller (basso elettrico), Steve Gadd (batteria), Larry Carlton e John Tropea (chitarre), David Sanborn (sax alto), Randy Brecker (tromba/flicorno), Michael Brecker (sax tenore). I temi scritti da Matthews espongono spunti melodici orecchiabili ma non banali, sempre nobilitati da assoli e virtuosismi di livello stratosferico: l’impetuoso unisono della sezione fiati su Grand Cross, i ricami elettrici sul tempo in levare di Kingston Connection, i duetti tenore/chitarra su Afro Sax e Movin’ Man, la pigrizia caraibica del flicorno su Pipe Dream, gli ispirati fraseggi dei due sassofoni su Sambafrique (tenore) e Star Island Drive (alto), l’impeccabile affiatamento del prestigioso tandem propulsivo su tutti i brani. Musica da gustare sorseggiando un’Anisetta Meletti con ghiaccio. - B.A.

Consulenza: Lorenzo 7Panella


JOHN McLAUGHLIN - EXTRAPOLATION (1969)

Registrati a cavallo di In A Silent Way, imperituro manifesto stilistico cui parteciparono entrambi i rispettivi titolari, Extrapolation (John McLaughlin) ed Emergency! (Tony Williams) segnano una svolta radicale per la musica improvvisata, pur senza vantare - né l’uno, né l’altro - alcun diritto all’evanescente titolo di “primo album fusion della storia”.
Extrapolation - Nel pieno dei fermenti creativi che vivacizzarono il jazz britannico in quegli anni, il chitarrista inglese assembla un quartetto di giovani fenomeni particolarmente sensibili ai richiami del futuro prossimo (rock, 1968 etc.): John Surman (sax baritono/soprano), Brian Odgers (contrabbasso), Tony Oxley (batteria). Sulle instabili fondamenta poliritmiche poste da Oxley i due solisti mantengono un delicatissimo equilibrio, con Surman curiosamente in primo piano rispetto al leader, mentre McLaughlin si incarica di chiosare gli assoli del fiatista con fraseggi nervosi e repentini. Egualmente godibili le diverse fisionomie espressive del combo: assorta (This Is For Us To Share, Really You Know) dinamica [Extrapolation, Arjen’s Bag (Follow Your Heart), Pete The Poet, Spectrum (poi riletta su Emergency!), Two For Two], allucinogena (It’s Funny, Binky’s Beam). - B.A.


JOHN McLAUGHLIN / SHAKTI - SHAKTI WITH JOHN McLAUGHLIN (1975)


JOHN McLAUGHLIN / SHAKTI - A HANDFUL OF BEAUTY (1976) FOREVER YOUNG

Negli stessi anni in cui gli Oregon pubblicavano i loro capolavori per la Vanguard (Music Of Another Present Era; Distant Hills; Winter Light; Friends; Violin), John McLaughlin raccoglie la sfida di una musica che, gettando un ponte tra Terzo Mondo e Vecchio Continente, trovava nell’improvvisazione il comun denominatore espressivo tra culture diverse. Dopo l’ottimo Shakti With John McLaughlin, registrato dal vivo, il chitarrista inglese entra in studio con i tre virtuosi indiani al fine di immortalare l’esperienza acustica secondo i dettami dell’alta fedeltà. La Danse Du Bonheur è introdotta dai percussionisti T. H. Vinayakram (ghatam, mridangam) e Zakir Hussain (tabla), che cadenzano una specie di “rap” onomatopeico per impostare il tempo. Che cazzo dicono? E chi lo capisce! Eppure l’effetto è straordinario e prelude a un’impetuosa fuga strumentale guidata da L. Shankar (violino). Il legame ideale col jazz è suggerito dalla formula stessa del quartetto, con la coppia ritmica che asseconda e incalza i due solisti (Lady L, India, Kriti, Isis, Two Sisters). McLaughlin superlativo: oltre che all’ispirazione del periodo e agli stimoli offerti dai partner, la bellezza dei suoi fraseggi si deve alla stupenda chitarra costruita da Abe Wechter (drone-string guitar), una Gibson J-200 modificata con spalla mancante e sette corde trasversali montate sulla cassa che, a piacimento dell’esecutore, vibrano per simpatia con la muta della tastiera o per estemporanei colpi di plettro. Frank Zappa in persona, pur osservando con fraterna commiserazione le inquietudini religiose del collega britannico, si accorse del talento di L. Shankar e produsse per lui l’album Touch Me There, ricercatissimo dai cultori. - B.A.


JOHN McLAUGHLIN / SHAKTI - NATURAL ELEMENTS (1976)


JOHN McLAUGHLIN - ELECTRIC GUITARIST (1978)

Reduce dall’inebriante sbornia acustica condivisa con gli Shakti (Shakti With John McLaughlin; A Handful Of Beauty; Natural Elements), John McLaughlin torna alle origini ed esibisce su carta d’identità e biglietto da visita i propri trascorsi di pioniere fusion vissuti accanto a Miles Davis (In A Silent Way; Bitches Brew; A Tribute To Jack Johnson). Reclutando una diversa band per ciascun arrangiamento, il chitarrista inglese si misura al vertice con fuoriclasse di diverso lignaggio. Se la cantabile melodia di Friendship tradisce la presenza di Carlos Santana, altrove vige la dura legge dell’improvvisazione. Dedicata a John Coltrane, la stupenda fuga jazz di Do You Hear The Voices That You Left Behind? ripercorre le vertiginose armonie di Giant Steps, in quartetto con Chick Corea (tastiere), Stanley Clarke (contrabbasso) e Jack DeJohnette (batteria). Su New York On My Mind, il contrasto tra le scosse telluriche prodotte da Billy Cobham (batteria) e i lirici assoli di Jerry Goodman (violino) e Stu Goldberg (sintetizzatore) raffigura brillantemente nevrosi e fascino della metropoli. Attraverso la cortina sonora di Are You The One? Are You The One? filtrano echi progressive propagati dal leader in trio con Jack Bruce (basso elettrico) e Tony Williams (batteria). Il furioso duello tra McLaughlin e Cobham colloca Phenomenon: Compulsion accanto ad altri incontri memorabili come Piscean Dance (Ralph Towner, John Christensen) e There Will Never Be Another You (John Scofield, Roberto Gatto). L’eterea interpretazione in solitudine di My Foolish Heart chiude in bellezza un classico degli anni Settanta. - B.A.


BILL MEYERS - IMAGES (1986)

MORRISSEY / MULLEN - UP (1977)

MORRISSEY / MULLEN - CAPE WRATH (1979)

MORRISSEY / MULLEN - BADNESS (1981)

MORRISSEY / MULLEN - LIFE ON THE WIRE (1982)

MORRISSEY / MULLEN - ITS ABOUT TIME (1983)

MORRISSEY / MULLEN - THIS MUST BE THE PLACE (1985)

MORRISSEY / MULLEN - HAPPY HOUR (1988)

DICK MORRISSEY - AFTER DARK (1983)

DICK MORRISSEY - SOULILOQUY (1986)

JIM MULLEN - THUMBS UP (1983)

 

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