Introduzione / Introduction
Listen to the Radio / Ascolta la Radio   Listen to the Radio / Ascolta la Radio   Listen to the Radio / Ascolta la Radio
THE VOICE OF MUSIC ... LA VOCE DELLA MUSICA
HOME NEW A.O.R. SOUL FUSION JAZZ ROCK PROGRESSIVE FOLK
RADIO BEATLES 10cc FRANK ZAPPA SINATRA & Co. 20th CENTURY CINEMA FOREVER YOUNG LINKS
 
 

A.O.R.

N-Q

SUZY NELSON - BUSMAN’S HOLIDAY (2000)

NIELSEN/PEARSON - THE NIELSEN/PEARSON BAND (1978)

NIELSEN/PEARSON - NIELSEN/PEARSON (1980)


NIELSEN/PEARSON - BLIND LUCK (1983)

L’energia dei Toto, l’eleganza degli Airplay, l’affiatamento di Hall & Oates e almeno una voce da ricordare (quella di Reed Nielsen): i numeri per sfondare c’erano tutti, ma Blind Luck era l’album giusto al momento sbagliato (la “new wave”, il riflusso, la “Milano da bere” etc.). Per fortuna, quel che resta non è poco: un capitolo significativo della storia A.O.R., ricco di canzoni ricercate e affascinanti, suonate con il cuore da artisti come Carlos Vega, Neil Stubenhaus, Mike Landau e Steve Lukather. Diversi momenti sono da antologia: Hasty Heart, un’impetuosa introduzione scossa da continui sussulti; Sentimental, che per forma e contenuto (il ritratto di un altro grande illuso) richiama What A Fool Believes di Kenny Loggins e Michael McDonald; I Hear You Breathing, Fadeaway, Expectations, prelibati accostamenti tra melodia, arrangiamento e interpretazione, non privi di un apprezzabile spessore lirico; firmata da David Roberts, Too Good To Last è una riuscita versione di un brano presente nel suo celebrato capolavoro (All Dressed Up ...) e, contemporaneamente, un omaggio all’ennesima vittima del sistema. - B.A.


KENNY NOLAN - KENNY NOLAN (1977)

KENNY NOLAN - A SONG BETWEEN US (1978)

KENNY NOLAN - NIGHT MIRACLES (1979)

KENNY NOLAN - HEAD TO TOE (1982)

LAURA NYRO - MORE THAN A NEW DISCOVERY (1967)

LAURA NYRO - ELI AND THE THIRTEENTH CONFESSION (1968) FOREVER YOUNG

LAURA NYRO - NEW YORK TENDABERRY (1969)

LAURA NYRO - CHRISTMAS AND THE BEADS OF SWEAT (1970) FOREVER YOUNG


LAURA NYRO & LABELLE - GONNA TAKE A MIRACLE (1971) FOREVER YOUNG

One of the finest tribute albums ever recorded. - Paul Ramey

La produzione di Gamble & Huff, gli arrangiamenti di Thom Bell, lo squillante pianismo di Laura Nyro e una band compatta e affiatata: con premesse simili non era azzardato scommettere su un grande risultato. Dopo la pubblicazione di questo album nessuno osò più insinuare che un bianco non fosse credibile come interprete soul (ammesso e non concesso che sia mai stato legittimo formulare dei distinguo così imbecilli). Il disco rende omaggio a un genere che viveva allora il suo momento di massimo splendore, e che la Nyro riconobbe, già nel 1971, come linguaggio autonomo e originale. Pescando in un repertorio zeppo di capolavori, Laura unì la propria passione alle potenti voci delle Labelle (Patti Labelle, Nona Hendrix, Sarah Dash) e rivisitò con freschezza e sensibilità You Really Got A Hold On Me, Dancing In The Street e altri classici della canzone mondiale. Per rendere indimenticabile qualche momento della vostra vita, ascoltate in buona compagnia The Bells e It’s Gonna Take A Miracle. Se invece volete rivivere le emozioni di Ulisse tentato dal richiamo dalle sirene, provate con Wind (ma prima fatevi legare alla poltrona). [P.S. - Per delineare la fisionomia di Rachel, personaggio chiave del suo libro About A Boy, Nick Hornby si è ispirato proprio a questa copertina: «Will fell in love on New Year’s Eve … She was called Rachel … and she looked a little bit like Laura Nyro on the cover of Gonna Take A Miracle - nervy, glamorous, Bohemian, clever, lots of long, unruly dark hair.» - Nel film tratto dal romanzo, Rachel Weisz ha incarnato splendidamente entrambe le figure.] - B.A.


LAURA NYRO - SMILE (1976) FOREVER YOUNG


LAURA NYRO - NESTED (1978) FOREVER YOUNG

lettera aperta a L.N. - Cara Laura, eravamo un popolo di uomini felici. Napaloni era solo la macchietta di un film, MTV non esisteva e la RAI, seppur lottizzata, ospitava ancora persone perbene come Andrea Barbato e Giuseppe Fiori. Non solo. Bastava scendere nel negozio dietro l’angolo per trovare te, Phoebe Snow, Shawn Phillips, Gordon Lightfoot … e tanti altri. Il pomeriggio ci incontravamo a casa dell’unico tra noi che possedesse un vero impianto stereo - gli altri avevano ancora lo “scatolino” di Selezione - per ascoltare musica e conversare amabilmente su temi fondamentali per il destino della specie: meglio i racconti fiabeschi dei Genesis o le suite psichedeliche degli Yes, la forza bruta di John Bonham o le sfumature ritmiche di Robert Wyatt, i montaggi fotografici della Hipgnosis o l’estro pittorico di Roger Dean? La sera, poi, quando ci spostavamo in pizzeria, era ancora possibile godersi una birra e una “margherita” senza subire l’assedio di Paperissima tracimante dai monitor a ridosso del tavolo. Insomma, un piccolo Eden incontaminato. Improvvisamente, a metà del 1976, con la scusa della rivolta giovanile - ma non c’era già stata nel '68? - un gruppetto di scalmanati inglesi cominciò a spaccare gli strumenti sul palco, a infilarsi le spille nei capezzoli e a tingersi i capelli di giallo. E fin qui, cazzi loro. Il problema è che la “stampa specializzata” italiana - incapace di formarsi un’opinione autonoma e storicamente succube dei colleghi britannici - abbracciò seduta stante quella parodia di “nuova tendenza”, eliminò dalle proprie pagine tutto il resto e impose al Paese (artisti, radio, negozi, pubblico) il seguente diktat: 1) mai superare la media di 0,5 accordi a brano; 2) il suono somigli più possibile a un marasma indistinto senza capo né coda (tanto penseremo NOI ad attribuirgli un meta-significato “sociale”; 3) chi non gradisce, vada a cercarsi i dischi in Giappone. All’epoca di Nested, dunque, eri già una “sopravvissuta”, un’emarginata, nonostante proprio le tue canzoni avessero salvato tanti innocenti dall’obbligo odioso di scegliere tra punk e “febbre”. Incorniciati da arrangiamenti sobri ma non disadorni, i tuoi acquerelli pop/gospel/folk rilasciavano un rivolo di emozioni intense e sincere: la pulsazione ovattata di Light e My Innocence; il comune background stilistico di Rhythm And Blues e The Sweet Sky; il fascino melodico di American Dreamer, criptico ritratto di un’ingenua - tu? - alle prese con avvocati, dottori e manager disonesti; il disagio interiore impersonato da Mr. Blue (The Song Of Communication), con l’inevitabile richiamo a un omonimo titolo di Michael Franks (The Art Of Tea); un sentimento messo a nudo su Crazy Love, con la tua voce divina accompagnata dal solo pianoforte; il tris di cuori composto da Springblown, Child In A Universe e The Nest. Insieme a te, pochi compagni fidati e simpatetici: Will Lee (basso), John Tropea (chitarra) - quell’anno presenti entrambi anche su Burchfield Nines e Other Peoples Rooms - Andy Newmark (batteria), Felix Cavaliere (tastiere), John Sebastian (armonica) etc. - Quanto ci manchi, carissima amica dei nostri giorni più lieti. Certo, abbiamo i tuoi CD, ma siamo circondati da gente brutta e cattiva. Per distrarci accendiamo la TV … giusto in tempo per assistere attoniti al ritorno in video di Paolo Liguori. Eppure Zappa ci aveva avvertito: The Torture Never Stops. - B.A.


LAURA NYRO - MOTHER’S SPIRITUAL (1984)

LAURA NYRO - WALK THE DOG & LIGHT THE LIGHT (1993)

JILL OHARA - JILL OHARA (1993)

DANNY O’KEEFE - O’KEEFE (1972)

DANNY O’KEEFE - BREEZY STORIES (1973)

DANNY O’KEEFE - SO LONG HARRY TRUMAN (1975)

DANNY O’KEEFE - AMERICAN ROULETTE (1977)


DANNY O’KEEFE - THE GLOBAL BLUES (1979) FOREVER YOUNG

L’inserimento di questo titolo nelle pagine A.O.R. può suscitare perplessità, ma d’altro canto … dove collocarlo? The Global Blues è uno di quei dischi che, come L di Godley & Creme o Rumplestiltskin’s Resolve di Shawn Phillips, eludono le definizioni, aggirano le categorie eppure, paradossalmente, raccontano un’epoca meglio di qualsiasi altro documento sonoro. L’autore di You Look Just Like A Girl Again sembrava aver raggiunto la completa maturità artistica con American Roulette, ed è per questo che in molti rimasero sorpresi dinanzi a una furia creativa ancora così intensa. Prendendo sulle proprie spalle gli affanni del mondo, O’Keefe lancia un grido di allarme sul catastrofico stato in cui versa il pianeta. L’atmosfera introdotta dalla title-track mette subito a disagio: l’inquietante riff del piano, il guaito elettrico emesso con la leva del vibrato, il lugubre lamento del coyote e le immagini di un incubo in cui «… you were Bette Davis and I was just untrue …» si fondono con gli echi jazz propagati da Tony Williams e Roger Kellaway. È solo l’inizio. Un crudo reportage musicale sulle incongruenze della nostra epoca (Livin’ In The Modern Age) prelude a un tris di eleganti canzoni in stile West Coast [Falsetto Goodbye; On The Wheel Of Love; (Keep Your) Back To The Wall] che valorizzano la stupenda voce country-rock di Danny. Con The Jimmy Hoffa Mem. Bldg. Blues va in scena un dissacrante epitaffio del discusso sindacalista scomparso in circostanze misteriose, i cui tratti pittoreschi sono esaltati da clarinetto, fisarmonica e chitarra steel. Squisitamente politiche le congetture sulla sua vera sorte: «… now some say Jimmy’s down in Argentina, others tell you that he simply changed his name, and a surgeon made him look a bit like Nixon, but aside from that he’s still pretty much the same …». Il sole quadrato che brilla sull’incantevole Square Sun irradia una luce psichedelica ormai affiochita dalla prossimità con gli anni Ottanta. Sull’omelia funebre in memoria delle ultime balene () i laconici versi cantati in giapponese fanno venire i brividi: ma davvero il genere umano è così stronzo? Nonostante questo, Danny O’Keefe continua a vegliare su di noi, e ogni notte monta la guardia al nostro giaciglio per impedire agli ultracorpi Endemol di sorprenderci nel sonno, mentre siamo più indifesi. [P.S. - La ristampa CD non è all’altezza dell’album: buona la qualità audio, scadente la confezione, mancano i testi, il titolo originale di è stato tradotto con uno sciatto Save The Whales.] - B.A.


DANNY O’KEEFE - THE DAY TO DAY (REDUX) (1984)

DAVID PACK - ANYWHERE YOU GO (1985)

PAGES - PAGES (1978)


PAGES - FUTURE STREET (1979) FOREVER YOUNG

Allora nessuno poteva saperlo - gli “addetti ai lavori”* imposero un’occhiuta censura - ma i Pages stavano redigendo il lessico definitivo della pop-song di fine secolo: certo, Burt Bacharach, i Beatles, gli Steely Dan … ma qui non ci si riferisce solo alla qualità artistica, comunque straordinaria, quanto proprio al fatto che questi album arginarono l’epidemia di I.C.S. (Indottrinamento Collettivo Sistematico) diffusa da radio, televisione e “stampa specializzata”. Per cui, se da un lato molti ascoltatori si ridussero a un’orda di zombie abbigliati come Tony Manero, Johnny Rotten o Albertino Di Molfetta, dall’altro c’era anche gente seria, composta, presentabile, che riusciva a procurarsi i rari e costosi LP di Marc Jordan, Bobby Caldwell, Rupert Holmes, Bill LaBounty, Peter Allen, Stephen Bishop pure in un clima di scherno, malanimo e ostracismo … la storia ha dato loro ragione e oggi quei bravi ragazzi sono adulti avveduti che sanno distinguere il bene dal male, ma anche un cioccolatino da uno stronzo … giudicate voi cosa è rimasto di punk e disco oppure di opere come Aja, Nightwalker, Windsong, Runaway … Dopo un esordio bello ma imperfetto e del tutto trascurato da “lor signori”, i Pages ci riprovano serrando i ranghi della band e affinando gli arrangiamenti delle canzoni. Con la conferma di Jerry Manfredi (basso elettrico) e il reclutamento di Charles “Icarus” Johnson (chitarre) e George Lawrence (batteria) l’organico si stabilizza attorno a Richard Page e Steve George, sensazionali cantanti/tastieristi/compositori, uno dei grandi tandem del rock moderno. Se l’introduttiva I Do Believe In You - ripresa da America (Alibi) e Frank Stallone (Frank Stallone) - esibisce riff e ritornelli tanto muscolari quanto accattivanti, è con The Sailor’s Song, Future Street, Chemistry e Keep On Movin’ che il sofisticato amalgama di R&B, soul, fusion descritto nel depliant promozionale della Epic si esprime in sublimi crescendo di armonie vocali, assoli incandescenti, melodie finissime, parole mai scontate. L’arte della ballad, di cui Page, George e Lang si dimostreranno maestri ineguagliabili [My Old Friend, I Will Be Here For You (Nitakungodea Milele), You & I, You Need A Hero, Come On Home, Tell Me], conquista nuovi standard di eccellenza con Take My Heart Away e, soprattutto, con Who’s Right, Who’s Wrong, preziosa pagina A.O.R. scritta a quattro mani da Richard Page e Kenny Loggins (ospite al microfono), poi mirabilmente interpretata anche dal co-autore (Keep The Fire): su entrambe le versioni Michael Brecker dilaga col suo sax, evidentemente consapevole di partecipare alla genesi di un capolavoro. Affidata alla voce di Steve George, la splendida Two People non va confusa con l’omonimo singolo di Tina Turner. Nonostante l’impeccabile produzione di Bobby Colomby, il meraviglioso trittico dei Pages vendette poche migliaia (centinaia?) di copie: stufi dell’indigenza, Richard Page e Steve George cambiarono nome (Mr. Mister) e acconciatura, ottenendo un clamoroso successo internazionale con Broken Wings … [P.S. 1) *In Italia ci risulta una sola recensione di Pages nella encomiabile ma oscura rubrica Import di Ciao 2001, oltre al marginale accenno in un vecchio numero del Buscadero. 2) Membro fisso ma “esterno”, John Lang firmava (quasi) tutti i testi.] - B.A.


PAGES - PAGES (1981) FOREVER YOUNG

La chitarra ritmica di Steve Khan e i battiti rallentati di Jeff Porcaro impostano il tempo: la pulsazione cardiaca che anima tutte le canzoni dei Pages inizia a vibrare. Un moog dalla sonorità liquida e un po’ antiquata espone il tema di You Need A Hero, sopra una sequenza di accordi imprendibile ma logica. Le voci galleggiano nello spazio, fuggono e si rincorrono, in un’ipnotica danza aerea. Solo i 10cc, diversi quanto più non si potrebbe, hanno usato i cori in modo altrettanto personale e creativo. È una musica che altera le percezioni, sconvolge le abitudini, e offre ai dannati della radio la possibilità di ricominciare. Una lista (parziale) degli album cui hanno partecipato in veste di cantanti e autori può illustrare, meglio di qualsiasi commento, la statura artistica di Richard Page e Steve George (e John Lang): Bi-Coastal, Sometimes Late At Night, Runaway, Windsong, On Your Every Word, Breakin’ Away, Jarreau, A Hole In The Wall, Retro Active, Keep The Fire, High Adventure, Mecca For Moderns, If I Should Love Again, Friends In Love. - B.A.


ROBERT PALMER - SNEAKIN’ SALLY THROUGH THE ALLEY (1974)

ROBERT PALMER - PRESSURE DROP (1975)

Almeno a giudicare dalle splendide copertine dei suoi primi quattro album - tre classici e un capolavoro - Robert Palmer aveva un’idea fissa: quella (l’altro “allupato confesso” era Bryan Ferry). Allo spontaneo moto di simpatia suscitato da una così franca esibizione di gusti personali, segue tuttavia l’immediato apprezzamento per la qualità della musica, elevatissima e costante almeno fino al 1979.
Sneakin’ Sally Through The Alley* - L’interrogativo è inevitabile: perché non si trova più un esordiente di questo livello? Certo, avere a disposizione i Meters al completo e Sua Altezza Lowell George aiuta ma, come accadde per i Beatles e la loro irripetibile vicenda, un felice sincronismo di fattori decisivi e convergenti (i primi anni Settanta, le sedute a New Orleans e Nassau, la lezione di Allen Toussaint, la lungimiranza di Chris Blackwell) determinarono il successo artistico del debutto individuale. Sorprendentemente, la cover di Sailin’ Shoes annulla la versione originale dei Little Feat, creando un’impetuosa slavina soul-rock che, insieme alla definitiva lettura di Sneakin’ Sally Through The Alley, segna il doppio vertice del disco e acclama Palmer come perfetto interprete del repertorio di George e Toussaint. In primo piano anche la spinta ritmica dei Meters dispiegata a pieno regime su How Much Fun con l’ausilio di un giovanissimo Simon Phillips, la palpabile intensità delle ballad Get Outside e From A Whisper To A Scream [a voi l’imbarazzo della scelta tra questo arrangiamento e la sofferta immedesimazione di Esther Phillips (From A Whisper To A Scream)] e, non foss’altro che per la firma congiunta Palmer/George, l’inedita Blackmail.
Pressure Drop - La squadra del 1975 schiera tutti i sei Little Feat, garantendo un’impeccabile esecuzione degli standard Trouble (Lowell George) e River Boat (Allen Toussaint), mentre gli archi diretti da Gene Page su Give Me An Inch, Back In My Arms e Which Of Us Is The Fool aggiungono alla tavolozza dell’artista inglese la pop-song orchestrale (su Double Fun la formula sarà sublimata nelle stupende Where Can It Go? e You Overwhelm Me). Gli echi della residenza caraibica di Robert risuonano sui cori meticci di Work To Make It Work e su Pressure Drop, ripresa dal catalogo di Toots And The Maytals. Il pezzo migliore è Here With You Tonight, scritto dal chitarrista ed ex-collega nei Vinegar Joe Pete Gage, un pigro funk condotto da organo e fiati che ha il merito di un’inconsueta, lodevole onestà d’intenti: “… let’s get one thing clear, I ain’t no substitution for the guy who left you alone, I’ll be here with you tonight, but tomorrow I’ll be gone …”. [P.S. - 1) *Ristampato su CD dalla Culture Factory. 2) Nel biennio 1972/1973 Robert Palmer aveva cantato e inciso coi Vinegar Joe insieme a Elkie Brooks.] - B.A.


ROBERT PALMER - SOME PEOPLE CAN DO WHAT THEY LIKE (1976)

L’uso della chitarra ritmica su Gotta Get A Grip On You (Part II) e What Can You Bring Me suggerisce un immediato parallelo con i dischi della Average White Band risalenti a questo stesso periodo. In effetti, durante il tramonto del progressive, proprio gli incorruttibili scozzesi e Robert Palmer tennero alto il vessillo della musica soul più autentica e meno compromessa, appena un attimo prima che sopraggiungesse la degenerazione 'disco'. Richie Hayward o Jeff Porcaro alla batteria, Chuck Rainey o Pierre Brock al basso garantiscono l’assoluta eccellenza della sezione ritmica su ogni brano. Paul Barrère, Bill Payne e Sam Clayton completano la consueta, massiccia partecipazione dei Little Feat alle incisioni di Palmer. Almeno tre pezzi rendono questo disco essenziale per chi ama la voce di Robert: One Last Look, sofisticata ballad di Bill Payne, sul genere dei Little Feat fine anni '70; un’ottima cover di Spanish Moon, priva della sezione fiati che abbelliva la versione originale dei Little Feat (Feats Don’t Fail Me Now) - ma il confronto tra le magnifiche voci di Robert Palmer e Lowell George si conclude in parità; la conclusiva Some People Can Do What They Like, un funky in cui la spessissima trama percussiva sostiene un refrain ripetitivo ma efficace. Tutto sommato, un altro ottimo lavoro di questo simpatico gaudente del rock, anche se fino a questo punto nulla avrebbe lasciato presagire l’arrivo del successivo, stupefacente Double Fun. - B.A.


ROBERT PALMER - DOUBLE FUN (1978) FOREVER YOUNG

Funk-Rock-Soul, certo: eppure originalissimo e fuori da schemi e caterigorizzazioni. Il sofisticato look adottato da Robert Palmer durante gli anni Settanta (una specie di James-Bond-al-Casinò) rispecchiava fedelmente il suo approccio anticonvenzionale alla musica: coerente all’epoca del progressive così come agli albori della “new wave”, estraneo al clan Airplay e dotato di uno stile non necessariamente riconducibile ai maestri della Motown, Palmer mescolò le atmosfere più nere dei Little Feat con un pizzico di A.O.R., una spruzzata di reggae e una voce inimitabile. Per coloro che nel 1978 soffrivano di “mal di punk”, la pubblicazione di Double Fun sortì l’effetto di una terapia miracolosa: una rapida occhiata alla splendida foto di copertina - Robert che ammira sornione due bikini abbandonati sul bordo di una piscina - e, come per incanto, la natura maligna dell’anti-musica è sconfitta. Un gruppo di musicisti scelti con cura: metà dei Little Feat (Bill Payne; Paul Barrère; Richie Hayward), i meravigliosi Brecker Brothers, più alcuni professionisti di sicura affidabilità (in particolare il bassista Pierre Brock, un vero fuoriclasse). Every Kinda People reca la firma di Andy Fraser, ex-bassista dei Free, e colse un ottimo successo come singolo, con la sua accattivante melodia, le parole inneggianti all’uguaglianza universale e l’emozionante climax strumentale esaltato dalla tromba di Randy Brecker. Best of Both Worlds è sostenuta da un ritmo reggae privo dei volgari orpelli “rasta”, su cui poggia un penetrante ritornello guidato dai cori di Robert e da una fitta tessitura di organo e chitarre. Le parole fanno riferimento al godereccio titolo dell’album (… best of both worlds ... double fun …). Love Can Run Faster diffonde lo stesso aroma caraibico, riconoscibile marchio di fabbrica dell’autore che, all’epoca, viveva a Nassau. L’ossessiva pulsazione funky di Come Over e il dinamico accompagnamento soul di Night People (scritta da Allen Toussaint) provano in maniera definitiva che per ballare il talento è più utile del rimbombo acefalo delle discoteche. Con Where Can It Go? e You Overwhelm Me Palmer offre un’invidiabile dimostrazione della sua versatilità, scrivendo e interpretando due colonne sonore notturne e sensuali, ricamate dal raffinato tocco orchestrale di Gene Page. La cover di You Really Got Me trasforma l’omaggio a Ray Davies in un super-funk dominato dai fiati di Randy e Michael Brecker, e arricchisce di nuove sfumature questo classico del rock. Morale della favola: ancora non conoscete questo disco? Povere vittime della disinformazione! Ribellatevi! Correte a cercarlo! Fate presto! - B.A.


ROBERT PALMER - SECRETS (1979)

Con lo smoking ancora indosso, Robert Palmer scende in garage intenzionato a “sporcare” un po’ il proprio sound. Al di là del primo brano - un insulso rock‘n’roll firmato da Moon Martin (di entrambi, nessuno avvertiva la mancanza) - Secrets è un album eccellente, quasi da “stelletta”. I fiati e gli archi di Double Fun lasciano spazio alle chitarre elettriche di Kenny Mazur, vero protagonista degli arrangiamenti, e le nuove canzoni sono all’altezza di un interprete di lusso che è anche autore brillante. Il trucco consisteva nel sovrapporre un doppio strato di tastiere alle intricate linee melodiche disegnate da Mazur, usando il formidabile basso di Pierre Brock come adesivo. Già da tempo Robert viveva a Nassau (furbo, eh?) e il tonificante effetto climatico delle Bahamas si percepisce soprattutto nei dettagli: la vibrazione calypso di Mean Ol’ World (scritta dall’ex-Free Andy Fraser), l’armonica a bocca di Greg Carroll (In Walks Love Again), l’indovinato parallelo amore/giustizia di Under Suspicion. Captata alla radio un’eterea pop-song di Todd Rundgren - Can We Still Be Friends - Palmer la trasforma in una ruvida ballata R&B: il gradimento dipende più che mai dal gusto personale. Restano da godersi le contorsioni rock di Jealous e Love Stop, la ribollente energia ritmica di What’s It Take e Woman You’re Wonderful, i riff a incastro di Remember To Remember, il reggae “azzimato” di Too Good To Be True, dedicato a una creatura troppo perfetta per essere vera: “they broke the mould when they made you”. Un disco “per l’uomo che non deve chiedere … mai”. - B.A.


ROBERT PALMER - DON’T EXPLAIN (1990)

LOU PARDINI - SOME THINGS NEVER CHANGE (1997)

LOU PARDINI - LOOK THE OTHER WAY (1998)

DANNY PECK - HEART AND SOUL (1977)

STEVE PERRY - STREET TALK (1984)

JIM PHOTOGLO - PHOTOGLO (1980)


JIM PHOTOGLO - FOOL IN LOVE WITH YOU (1981)

I nostri nonni dicevano: “... del maiale non si butta via niente ...”, alludendo al fatto che del simpatico animale si utilizzavano anche le parti meno nobili. Verissimo. La stessa perla di saggezza può essere applicata al repertorio di Michael McDonald. Al punto che un album come questo diventa indispensabile proprio grazie a un inedito firmato da Michael nel 1974 (Try It Again), cioè ben due anni prima del suo ingresso nei Doobie Brothers. L’oriundo greco Jim Photoglo propone una convincente lettura della canzone, che diffonde echi e colori delle più note ballad di McDonald (I Can Let Go Now; Anyway You Can). Gli schifiltosi fondamentalisti A.O.R. potranno divertirsi a piluccare qua e là gli avanzi del disco (Fool In love With You; There’s Always Another Chance Left For Love etc.). - B.A.


JIM PHOTOGLO - THE THIN MAN (1983)

POCO - FROM THE INSIDE (1971)


POCO - A GOOD FEELIN’ TO KNOW (1973)

Chitarre acustiche. Contrappunti elettrici. Armonie vocali. Melodie suadenti. La sana consapevolezza di non poter cambiare il mondo con un disco. Insieme ad America e Loggins & Messina, i Poco hanno concorso a scrivere la storia del country-rock registrando una lunga serie di album onesti, privi di ambizioni “politiche” ma ricchi di ottime canzoni. Con Richie Furay ancora fortemente motivato (se ne andrà poco prima della pubblicazione di Crazy Eyes), A Good Feelin’ To Know inquadra la West Coast post-'68 e pre-Hotel California, offrendone una nitida istantanea musicale. Trainata da un incrollabile ottimismo e da cori magnifici, la title-track è il manifesto estetico di Furay e rimarrà nella scaletta live anche dopo il congedo dell’autore. Un bozzetto di Tim Schmit - I Can See Everything - anticipa quello stile 'soft' che, passando per Keep On Tryin’ (Head Over Heels) e Starin’ At The Sky (Rose Of Cimarron), assurgerà alla fama eterna con I Can’t Tell You Why degli Eagles (The Long Run) - dossier I - nei cui ranghi Tim aveva sostituito l’altro ex-Poco, Randy Meisner. Il passato prossimo ritorna con una bella cover di Go And Say Goodbye, firmata da Stephen Stills, ex-collega di Furay nei Buffalo Springfield. Rusty Young non è ancora emerso come autore e cantante - brillerà in entrambi i ruoli - ma la sua 'pedal steel' adorna già gli arrangiamenti con gusto sopraffino (And Settlin’ Down; Keeper Of The Fire; Restrain). Erano giorni felici, quelli. - B.A.


POCO - CRAZY EYES (1973)

POCO - CANTAMOS (1974)

POCO - SEVEN (1974)

POCO - HEAD OVER HEELS (1975)

POCO - ROSE OF CIMARRON (1976)

POCO - INDIAN SUMMER (1977)


POCO - LEGEND (1978)

Il disco fu inciso in circostanze singolari: rimasti in due dopo gli anni d’oro della West Coast, Paul Cotton e Rusty Young rimpiazzano la storica sezione ritmica dei Poco - Tim Schmit e George Grantham - con gli immigrati inglesi Charlie Harrison (basso) e Steve Chapman (batteria), affidando le tastiere a Jai Winding, veterano di consumata esperienza e protagonista di sedute memorabili (Terence Boylan; Dane Donohue etc.). Proprio grazie alle rifiniture di Winding, Legend dirada le tradizionali atmosfere country-rock per assumere connotati prossimi all’A.O.R. più elegante. In questo senso, Spellbound e The Last Goodbye sono ballad esemplari. Malgrado la scarsa attitudine a scalare le classifiche, le canzoni dei Poco sono sempre piacevoli: la grinta funk di Boomerang apre l’album a ritmo sostenuto; su Heart Of The Night, la 'pedal steel' e il piano Fender creano un originale mélange timbrico; Barbados mette insieme l’edonismo di Glenn Frey con l’indole marinara di Jimmy Buffett; Little Darlin’ rapisce anche l’ascoltatore più distratto con una disarmante orecchiabilità. Il pezzo più bello è Crazy Love: un finissimo arrangiamento a base di chitarre acustiche e armonie vocali spinse il singolo al n° 17 di Billboard. Colonna sonora ideale per l’ammazzacaffè su un’isola del Mediterraneo quando, di ritorno dal ristorante caratteristico, ci si attarda in veranda a frescheggiare. - B.A.


DAVID POMERANZ - TIME TO FLY (1971)

DAVID POMERANZ - IT'S IN EVERYONE OF US (1975)

DAVID POMERANZ - THE TRUTH OF US (1981)

 

| A | B | C | D-E | F | G | H-I | J-K | L | M | N-Q | R | S | T-Z |

| HOME | NEW | A.O.R. | SOUL | FUSION | JAZZ | ROCK | PROGRESSIVE | FOLK | 20th CENTURY |
|
RADIO | BEATLES | 10cc | FRANK ZAPPA | SINATRA & Co. | CINEMA | FOREVER YOUNG | LINKS |